Alle origini delle politiche ambientali europee, 5 maggio 2025

Il 5 maggio 2025, nell’ambito del corso di Storia contemporaneadel professor Mauro Elli, il dottor Lorenzo Meli (Università di Milano) ha tenuto una conferenza sulle origini delle politiche ambientali europee e le sfide ecologiche degli anni Settanta e Ottanta affrontate dalla Comunità Europea (CE). Infatti, negli ultimi trent’anni è cresciuta l’importanza della politica ambientale, divenuta connotante per i vertici comunitari europei in maniera simile a quanto accadde per la politica agricola comune (PAC) nel corso degli anni Cinquanta e ‘Sessanta. La questione venne affrontata seriamente a partire dal 1968, grazie a figure importanti all’interno della commissione europea come Lorenzo Natali. Prima di lui vi era stata una scarsa o nulla attenzione per l’ambiente: nei primi trattati, infatti, non vi era un esplicito riferimento all’inquinamento né alle condizioni di vita dell’uomo e il cardine dell’azione comunitaria si focalizzava sulla ricostruzione, sull’industrializzazione e sulla modernizzazione degli stati membri. Questo approccio era figlio della società dei consumi sviluppatasi nel secondo dopoguerra e rimase dominante fino alla fine degli anni Sessanta.

Al termine di quel decennio, con i mutamenti in corso nella società e nelle relazioni internazionali, il tema ambientale acquisì una crescente importanza agli occhi delle opinioni pubbliche e della politica. Nonostante si facessero sentire le prime difficoltà all’interno della piccola Comunità Economica Europea a sei membri, con l’opposizione della Francia all’ingresso del Regno Unito, nel 1969, al vertice dell’Aja, vennero fissate nuove priorità: il completamento del mercato unico, l’allargamento della comunità e l’incremento del peso politico della CE con il varo di nuove politiche comunitarie. Di pari passo si sviluppò una nuova sensibilità ambientale, specie nelle opinioni pubbliche dei paesi nordici; la forte spinta proveniente dalla popolazione consentì di portare a livello politico queste preoccupazioni e di fare pressioni per gestire gli aspetti deleteri dell’industrializzazione, i cui effetti si stavano manifestando con maggior forza. Un ruolo simile in Italia venne svolto dal Club di Roma, animato da Aurelio Peccei: egli radunò dirigenti d’azienda e scienziati per affrontare concretamente il problema dell’inquinamento. Il Club si impegnò anche nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sugli effetti dell’industrialismo e commissionò uno studio ai ricercatori del MIT per stimare gli effetti sull’ambiente che i ritmi di crescita industriale avrebbero avuto in futuro. Il rapporto venne pubblicato nel 1972 col nome The Limits to Growth, per la prima volta l’attenzione della politica e dell’opinione internazionale si dedicò al consumo di risorse per lo sviluppo industriale. Ben presto il rapporto divenne uno dei più importanti punti di riferimento dell’ambientalismo internazionale: esso sosteneva che, continuando con quei ritmi di crescita industriale, la Terra non avrebbe potuto più sostenere la popolazione umana. La conferenza ONU di Stoccolma sull’ambiente umano, tenutasi nel giugno 1972, sancì la definitiva emersione del tema ambientale sulla scena politica internazionale.

Nel 1973 la CE a nove membri, guidata dalla commissione Mansholt, intraprese una linea d’azione volta a garantire uno sviluppo sostenibile, vedendo nell’ambiente un’esigenza imprescindibile e un canale per affermare una reale identità politica europea, nonché la propria autonomia decisionale rispetto ai vari governi nazionali. Venne creato ex-novo una nuova direzione per l’ambiente, ma fino al 1987 non vi fu un vero e proprio impianto normativo definito, rimanendo perciò per lungo tempo i riferimenti giuridici gli articoli del trattato di Roma. Durante il mandato della commissione Ortoli, la gestione della nuova politica ambientale venne affidata a Carlo Scarascia-Mugnozza, politico e avvocato brindisino, molto vicino ad Aldo Moro. Lo scoppio del primo shock petrolifero e la conseguente crisi energetica si abbatterono sulle economie europee, e influenzarono le politiche ambientali della CE, gettando, nel biennio 1973-’74, le basi del primo piano di azione ambientale (PAA). Esso era un piano quadriennale consistente in una serie di direttive per i paesi membri, solo in parte vincolanti, fondate su tre principi ispiratori: la riduzione dei consumi energetici da fonti fossili, la diversificazione delle fonti d’approvvigionamento e una politica sanzionatoria per i soggetti inquinatori. Il secondo e il terzo piano d’azione ambientale furono gestiti e sviluppati da Lorenzo Natali: partigiano, politico di area cattolica afferente alla corrente DC di Fanfani, che già aveva ricoperto incarichi sia locali che nazionali. Nel 1977 entrò a far parte della commissione Jenkins, restando in carica per undici anni; giocò un ruolo significativo all’interno del processo della costruzione europea, ricoprendo in tempi diversi il ruolo di vicecommissario e delegato per l’energia, l’ambiente e l’allargamento. Con il terzo piano d’azione del 1985 introdusse la valutazione di impatto ambientale, coinvolgendo nella sua realizzazione anche le rappresentanze dei soggetti produttori e il Comitato Economico Sociale della CE. Lo sconcerto dell’opinione pubblica, derivante da eventi come il disastro di Seveso del 1976, contribuì a rafforzare la convinzione di dover attuare una politica di prevenzione e d’informazione della popolazione sui pericoli che comportavano le produzioni industriali ad alto rischio.

Una prima razionalizzazione della normativa arrivò con la sigla dell’Atto unico europeo dell1987 e poi con il trattato Maastricht del 1992. Delors, presidente della commissione europea nel decennio 1985-’95, fu l’uomo di riferimento in Europa e gestì l’esplosione normativa nel settore, promuovendo contemporaneamente un modello sociale europeo: infatti riuscì a coniugare lo sviluppo economico con la tutela della cittadinanza dal punto di vista sanitario, occupazionale e sociale. Con la svolta sancita dall’Atto unico europeo, l’ambiente venne inserito come titolo VII per tutelare le risorse naturali e lo sviluppo. Si ribadirono alcuni principi, in parte già presenti nel dibattito pubblico: la prevenzione, l’intervento alla fonte del problema, le sanzioni per i trasgressori e l’integrazione della politica ambientale assieme agli altri settori della UE. Tuttavia, il problema del conflitto decisionale tra le varie istituzioni europee e governative è rimasto, oggi come allora, una presenza costante: le direttive vengono proposte dalla Commissione ma votate all’unanimità dal Consiglio dei ministri degli stati membri. Una divisione sul tema ambientale, inoltre, ha visto più volte contrapporsi i paesi proattivi, come Danimarca, Paesi Bassi e Germania, e paesi che invece si adeguavano alle direttive, come quelli mediterranei. Queste frizioni vertevano, allora come oggi, sulle opportunità industriali, sulla competitività e sul divario industriale. Nonostante queste difficoltà, nel 1992 l’UE usò la politica ambientale per delinearsi politicamente rispetto agli altri soggetti internazionali ed affermare la propria autonomia d’azione rispetto agli stati nazionali. La conferma dell’Atto unico e la procedura di codecisione, che coinvolge ministri e Parlamento, rafforzò la rilevanza dell’azione dei movimenti verdi, fortemente attivi in tutta Europa occidentale già dagli anni Ottanta. A livello internazionale invece, durante la conferenza ONU svoltasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992, si discusse del concetto di sviluppo sostenibile, della diversificazione energetica e delle energie rinnovabili, oltre che riguardo le opportunità di sfruttare tali tecnologie nel mondo in via di sviluppo. Nell’Unione Europea l’ultima risistemazione normativa è stata realizzata col trattato di Lisbona del 2009, che ha confermato il principio di precauzione: le istituzioni comunitarie si riservano la prerogativa di adottare tutte le misure cautelative opportune in presenza di situazioni di incertezza scientifica che possano arrecare danno ai cittadini o all’ambiente. Questa cultura della sicurezza e il suo recepimento come criterio è stato usato per definire una identità europea differente sul tema della crescita rispetto ad altre offerte nel mercato della globalizzazione. Infatti, già negli anni Novanta coi nuovi trattati, l’UE scelse di affermarsi nella globalizzazione come soggetto dotato di peculiari caratteristiche in grado di attuare un modello di sviluppo rispettoso delle istanze dal basso e dell’ambiente, con lo scopo di contenere l’instabilità sociale e generare maggior benessere.

Nicolò Gilardi