Contro frate Bernardino da Siena. Processi al maestro Amedeo Landi (Milano 1437-1447), a cura di Marina Benedetti e Tiziana Danelli, Milano University Press, Milano 2021

Scrivere di storia è ben diverso dal raccontare una storia: nel primo caso le fisionomie dei personaggi spesso sfuggono, i perimetri dei luoghi sfumano, le parole pronunciate subiscono trasformazioni nelle traduzioni e trascrizioni. Se nel raccontare una storia l’obiettivo è di convincere il lettore della linearità della trama portandolo allo stupore per un finale inaspettato, nel rigore metodologico dello scrivere di storia capita che sia lo studioso il primo soggetto a provare stupore per un ritrovamento documentario. Il volume Contro frate Bernardino da Siena. Processi al maestro Amedeo Landi (Milano 1437-1447) curato da Marina Benedetti, professore ordinario di Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Milano insieme alla sua collaboratrice Tiziana Danelli, è il frutto di «una avvincente avventura di ricerca» (Introduzione, p. 7) che ha preso avvio dal rinvenimento di un gruppo di documenti processuali nell’Archivio dei Luoghi Pii Elemosinieri presso l’Azienda di Servizi alla Persona Golgi Redaelli. Tale ritrovamento ha sollecitato la ricerca di un dossier fotografico, rimasto per anni in un armadio della biblioteca milanese del Convento di Sant’Angelo, ritraente altre parti del medesimo processo, trascritte parzialmente nel 1980 da padre Celestino Piana. La documentazione è relativa a un processo contro un maestro d’abaco veneziano residente a Milano.

Se fino a questo punto il dato può apparire di relativo interesse, i tempi, il contesto ma soprattutto i protagonisti incendiano la miscela che ora risulta esplosiva: la vicenda si snoda in una delimitata finestra temporale e spaziale, intorno agli anni ‘40 del XV secolo a Milano, quando il movimento dell’Osservanza minoritica intendeva stabilirsi in città, una città nelle cui piazze tuonava la voce tagliente e vibrante di frate Bernardino da Siena. Predicazione, entusiasmo, cautela, accuse, reazioni, sono tutti vocaboli che ritornano spesso nel volume, e permettono al lettore di immergersi nelle passioni e nelle tensioni che animavano protagonisti e astanti. Rivive tra le pagine non solo la vicenda giudiziaria ma anche quella umana del maestro d’abaco Amedeo Landi, e se la «delicata fragilità» (p. 9) di un dossier incompleto costringe lo storico a compiere l’atto più difficile da accettare, quello di fermarsi, le lame di luce che filtrano attraverso queste «intermittenze documentarie» (p. 10) illuminano nuovamente un fatto già noto, proprio come sottilmente afferma Marina Benedetti in apertura del volume nel saggio Inquisizione a Milano (sec. XIII-XV): «nulla è più inedito dell’edito» (p. 17).

La riflessione sui documenti proposta dall’autrice evidenzia che la complessità della realtà non può essere ridotta a interpretazioni semplicistiche che ricompongono linearmente il mosaico dei fatti (come insegna il superamento del metodo filologico combinatorio), ma è necessario tenere in considerazione le potenzialità di una visione prismatica sul nesso intricato e indissolubile tra fatti, loro recezione e trasmissione (p. 20). Solo così il “documento” si fa “monumento”, e non c’è da meravigliarsi quando accade anche l’opposto: se è delicata la fragilità documentaria in relazione alla figura dell’inquisitore Pietro da Verona, di certo la maestosa arca che ne custodisce le spoglie mortali nella cappella Portinari in Sant’Eustorgio a Milano e che presenta, scolpito sulla pietra, il racconto martiriale, stupisce per la sua imponenza e stabilità. Il “monumento” si fa “documento” (p.18).

Lo sguardo ampio sul contesto milanese si allarga cronologicamente, analizzando la documentazione inquisitoriale dei processi contro i devoti e le devote di Guglielma, le disinvolte accuse di eresia mosse contro i Visconti da papa Giovanni XXII, le sentenze di condanna emesse a Milano contro alcune donne tra XIV e XV secolo: il «dimorfismo» (p. 9) tra eresia e santità provoca un ribaltamento del normale ragionamento di fronte a queste attribuzioni (che – si badi – sono sempre conferite dall’esterno), e il consolidato paradigma di un santo (frate Bernardino) che accusa un eretico (maestro Amedeo Landi) improvvisamente vacilla. Il «doppio inciampo» (p. 8) provocato dal maestro d’abaco nei confronti di frate Bernardino nella sua operazione di reclutamento di giovani milanesi alla vita religiosa ma soprattutto, dopo il 1444, nella rapida e improrogabile inquisitio in partibus del frate Minore Osservante, rappresenta il motivo della produzione della documentazione.

Marco Bascapè nel saggio riguardante il “dossier Landi” indaga sulla provenienza di questo materiale, cogliendone il carattere «decisamente scottante» (p. 102): il Consorzio del Terz’Ordine, depositario del fascicolo di nove unità fino alla fine del XIX secolo (quando Arturo Faconti operò un rimaneggiamento archivistico della documentazione), rappresentava il luogo ideale per tenerlo al sicuro. Frate Bernardino andava “protetto”, e per farlo non era sufficiente nascondere il pericoloso intralcio del “caso Landi”, ma era necessario innalzarlo ai vertici di una luminosa (o illuminata – da altri) prova di sopportazione di persecuzioni e avversità. Ed è proprio questo uno dei risultati dell’analisi filologica compiuta da Tiziana Danelli, co-curatrice dell’edizione critica: la filigrana presente nelle copie delle deposizioni del primo processo del 1437, nella lista di errores attribuiti ad Amedeo Landi e nella tabella con le accuse mosse contro di lui è la medesima, segnale che rende ipotizzabile la contemporaneità di stesura dei documenti successiva al 1445 (pp. 106-107). Il dossier pertanto sembrerebbe compilato «in funzione dell’inquisitio in partibus»(p. 119) e la pietra d’inciampo alla figura del frate senese rappresentata dal maestro d’abaco si trasforma in primo solido gradino per sorreggere una santità che non poteva essere compromessa e quindi rimandata. Di fronte a questa sottile progettualità Francesco Guicciardini osserverebbe: a quanta «instabilità, né altrimenti come uno mare concitato da’ venti, sono sottoposte le cose umane» (F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di U. Dotti, Torino 2015 [Firenze, Lorenzo Torrentino 1561], tomo I, libro I, p. 9).

Tuttavia le novità non finiscono qui. Il volume, suddiviso in tre sezioni, si apre con una riflessione sulla documentazione inquisitoriale ed è coronato, nell’ultima parte, dall’edizione critica del materiale archivistico, efficace strumento per intraprendere nuove strade di ricerca; la rimanente sezione presenta due interessanti saggi di Beatrice Del Bo e di Maria Nadia Covini che arricchiscono di dettagli il panorama storico in questione. Il ragionato sguardo prospettico dell’opera penetra il contesto milanese, conducendo il lettore nell’ambiente reale, esattamente nell’area del Broletto Nuovo di Milano, tra le grida di giudici che emettevano sentenze e il tintinnio dei cambiavalute e banchieri, tra i profumi dei venditori di pesci e di pollame e le voci di chi insegnava non solo l’aritmetica e altre scienze, ma induceva gli scolari ad agire e vivere bene (p. 58). E scorrendo le deposizioni testimoniali, vera miniera di informazioni sul mondo mercantile dell’epoca, sembra quasi di vedere maestro Amedeo Landi mentre parla ai suoi studenti, umanamente e paternamente preoccupato (p. 86) per eventuali scelte istintive e poco ponderate di abbracciare la vita religiosa minoritica a seguito della predicazione infiammata di frate Bernardino. L’attenzione ai lineamenti biografici è rivolta sia al Landi sia ai suoi allievi, tra i quali spiccano le figure di Bartolomeo da Novate e Andrea Panigarola. Le deposizioni dipingono il Broletto Nuovo di Milano come uno «spazio vissuto» (p. 60) in cui scambi, insegnamenti, commerci e relazioni erano cassa di risonanza di una città che non si limitava ad esaltare la sua attività istituzionale, ma che si infervorava anche nell’incontrarsi per «ragionare insieme» (p. 62). E di fronte a ciò non possono non tornare alla mente le suggestive e illuminanti parole di Gioacchino Volpe: «Il moto ereticale tutto quanto, nel suo complesso, è moto di cultura, checché si possa pensare il contrario; è cioè indice e insieme spinta di un più vivo lavorio intellettuale. Son coscienze che si plasmano e reagiscono; son cervelli prima inerti che si mettono in moto» (G. Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana. Secoli XI-XV, Firenze 1971 [1922], p. 52).

A interpretare il disorientante “silenzio” dei documenti – e lo stridente “rumore” degli sforzi combinatori di chi ha fretta di raccontare una storia – è chiamata la delicatezza dello storico. Il suo “mestiere” di scrivere di storia è fatto anche di questo.

Francesco Ronchetti