Convegno “Alessandro Manzoni, la storia e la fabula” (giornata del 6 novembre 2023)

In occasione del 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni (1785-1873) e nella cornice delle celebrazioni milanesi e nazionali di questa ricorrenza è organizzato dai Dipartimenti di Studi storici e di Studi letterari, filologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con Casa Manzoni e con la Biblioteca Braidense, il convegno Alessandro Manzoni, la storia e la fabula, che si svolge nei giorni 6, 7 e 8 novembre 2023 a Milano. La prima giornata è dedicata alla dimensione storica di Manzoni e delle sue opere, invece, i due giorni successivi, con gli interventi ospitati alla Biblioteca Braidense e a Casa Manzoni, si concentrano sugli aspetti linguistici-letterari della produzione manzoniana. I lavori prendono avvio alle ore 9:30 del 6 novembre presso la Sala Napoleonica della Statale, in via Sant’Antonio 12. Di seguito, verranno esposti lo svolgimento e i contributi inerenti a questa prima giornata del convegno.

La mattinata si apre con i saluti iniziali del professor Elio Franzini, Magnifico Rettore della Statale, il quale esprime la sua soddisfazione per un convegno che risulta essere interessante da due prospettive: da una parte per gli italianisti e la storia della letteratura, dall’altra sotto il profilo della storia del nostro Paese. In tal senso, i lavori che si svolgeranno sono un ottimo esempio di connubio produttivo tra storici e letterati. Manzoni, precisa Franzini, ha dato all’Italia una nuova riformulazione della lingua e il racconto di una grande fabula, bisogna fare in modo che la sua figura «esca delle scuole». Il convegno ha la funzione di «gettare Manzoni oltre la pedanteria». La vita di Manzoni era passata nella «regolarità formale», nascondendo altresì una «profondissima complessità, quale un cielo scuro come, forse – conclude suggestivamente il Rettore – era la sua anima».

Prende poi la parola, a titolo del Comune di Milano, il direttore bibliotecario Stefano Parisi, portando i saluti della municipalità. Parisi mette in risalto la centralità che le celebrazioni per il 150° anniversario dalla morte dello scrittore hanno avuto per la vita culturale di tutta la città, ricordando alcune iniziative, come la posa in primavera di una stele commemorativa presso il tribunale di Milano, la lettura integrale de I promessi sposi in Duomo, la visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Casa Manzoni, una novità nella storia repubblicana. Il Manzoni, termina Sacchi, «sa parlare al cuore e alle menti degli uomini e delle donne del nostro tempo».

Ad aprire ufficialmente i lavori è la professoressa Claudia Berra, Direttrice del Dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici della Statale. Nel farlo, Berra manifesta la sua soddisfazione per il convegno, frutto della collaborazione tra dipartimenti, che ha consentito di rivolgersi sinergicamente a due fattori della vita e dell’opera manzoniana: la storia e la fabula. Il proposito è non solo quello di guardare a Manzoni nel suo tempo, ma anche domandarsi se egli sia letterato ancora attuale. Il milanese è un autore interdisciplinare: letterato, storico, linguista, ma anche aperto alle discipline scientifiche. Soprattutto, Manzoni, è l’autore degli umili e degli oppressi, dei diritti e dei doveri umani. Ecco che, allora, si avvia a concludere Berra, Manzoni ha dato voce a una donna giovane e debole: Lucia, imbarcatasi per sfuggire a un pericolo mortale, non sapendo a cosa stesse andando incontro. Anche solo quest’ultima vicenda, ci parla dell’attualità dell’intellettuale milanese.

A presiedere la prima sessione mattutina è il Direttore del Dipartimento di Studi storici, il professor Andrea Gamberini, al quale va anche l’onore di coordinare tutta la prima giornata di lavori, suddivisa in due sessioni mattutine e due pomeridiane, per un totale di dieci relazioni.

Roberto Bizzocchi, Sismondi, Manzoni e la storia d’Italia

Il primo relatore è il professor Roberto Bizzocchi, emerito dell’Università di Pisa, autore del libro I promessi sposiRomanzo popolare (2022), con un intervento, Sismondi, Manzoni e la storia d’Italia, che analizza la diatriba sulla morale cattolica tra Sismondi e Manzoni. 

Bizzocchi introduce lo storico svizzero Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi e l’opera oggetto dell’interesse di Manzoni: la Histoire des républiques italiennes du Moyen-âge (1807-1818). Questo lavoro fu influente, letto in tutta Europa e tradotto in diverse lingue. Questa importanza l’Histoire la ebbe anche per Manzoni. Egli non amava le polemiche ma, in questo caso, si spinge a scrivere un’opera di risposta. Un’esaltazione della civiltà dei comuni italiani, ecco cosa rappresenta l’Histoire. In realtà, nell’ultimo volume e in sole cinquanta pagine, Sismondi attacca i cittadini dei comuni, facendo emerge la decadenza degli italiani e l’impossibilità per quelli dell’Ottocento di essere sullo stesso livello delle altre nazioni europee, per via del loro cattolicesimo. È la Controriforma il male maggiore: tutta l’Europa si dirigeva verso un futuro radioso dato dalla libertà di coscienza, mentre la morale cattolica portava alla doppiezza, all’esteriorità della fede e all’obbedienza al potere costituito.

Manzoni risponde a Sismondi con le Osservazioni sulla morale cattolica (1819), dal momento che egli è preoccupato del futuro dell’Italia e la posizione dello storico, più che religiosa, è politica. Sismondi faceva parte del cenacolo culturale che si riuniva intorno a Madame de Staël; un gruppo che propose di cavalcare in modo illuminato il nazionalismo. Nel clima della Restaurazione, gli intellettuali liberali perseguono un programma di libertà costituzionali e politiche, progettando un «tavolo di un’Europa delle Nazioni», che sappia assecondare il nazionalismo per giungere alla libertà. Gli italiani non erano all’altezza di questa piattaforma europea perché cattolici.

Manzoni risponde con due opere: le Osservazioni I promessi sposi. La domanda posta nelle Osservazioni è fondamentale: «come è possibile che la morale cattolica renda un popolo inadeguato a partecipare alla comunità europea?». Manzoni non ragionava solo da credente, ma anche da erudito che aveva presente il ruolo del cattolicesimo nella storia d’Italia. Egli sosteneva che anche gli italiani potevano partecipare a quel “tavolo europeo”: la morale cattolica era compatibile con lo «spirito del secolo». Manzoni vuole richiamare i Lumi, è presente lo sforzo di coniugare le nuove idee con il cattolicesimo, rispondendo a Sismondi sul piano politico. Per lo svizzero, un problema era la confessione, la quale, facendoti inginocchiare, prostrava il popolo italico di fronte all’autorità, cosicché il problema da religioso diveniva politico: l’italiano si fa dirigere e non è adatto al liberalismo. Manzoni sostiene invece che è utile consultare un religioso perché «del consiglio che gli viene dato egli [il penitente] è sempre giudice», infatti, la responsabilità intellettuale appartiene solo all’individuo. Anche I promessi sposi possono essere considerati una risposta a Sismondi, il quale appare fonte per il romanzo. Con le Osservazioni Manzoni ha voluto mostrare come gli italiani possano partecipare alla piattaforma europea, liberale e illuminata, mentre con le vicende di Renzo e Lucia, il milanese si allinea a Sismondi e ne prosegue il lavoro, dal momento che Manzoni svilupperà concretamente temi negativi dell’Italia seicentesca. L’immagine che l’autore restituisce del Seicento è stereotipata: definito «secolo bestiale», collocandosi accanto a Sismondi.

L’operazione politica manzoniana, conclude Bizzocchi, è stata la prima a sgombrare il campo dal pregiudizio anticattolico, per poi ricollocare la decadenza nel Seicento, in modo da costruire l’identità politica dell’Italia.

Rita Librandi«Accozzi inusitati di vocaboli usitati»: da Cuoco e Manzoni la ricerca di una lingua per farsi capire

Il secondo contributo della sessione è di Rita Librandi, Vicepresidente dell’Accademia della Crusca. Il tema, «Accozzi inusitati di vocaboli usitati»: da Cuoco e Manzoni la ricerca di una lingua per farsi capire, riguarda il rapporto linguistico tra Alessandro Manzoni e Vincenzo Cuoco. Librandi evidenzia una continuità tra il giovane Manzoni e quello più maturo in merito all’idea della funzione pedagogica della lingua e si domanda come questo ideale si manifesti nella sua visione linguistica.

Le idee di Cuoco possono essere ricavate da un rapporto che scrisse nel 1809 a Murat, dal Platone in Italia(1804) e dagli articoli di giornale. In Platone in Italia, egli spera in una unità linguistica della penisola, da raggiungersi con quella politica. In un articolo del 1806, Cuoco opera una distinzione tra coloro che sono in grado di dare un giudizio su un testo letterario e coloro che non lo sono: sono le persone colte a non essere in grado di avanzare verdetti, in quanto il loro pensiero è troppo articolato, mentre gli incolti riescono a cogliere l’essenza, esaminando solo le idee e non le parole usate per esprimerle.

La divergenza più grande tra i due letterati è, per Librandi, l’adesione di Cuoco ai sensiti. Il napoletano ritiene che le parole non servano solo a esporre le idee, bensì che abbiano una funzione nel formarle. Invece, per Manzoni la nascita della parola non può precedere quella delle idee, manca però l’adesione all’innatismo, infatti, non possiamo ragionare con ciò che la realtà oggi ci offre in merito a questioni del passato poco chiare. 

Librandi ci dice che è impossibile scorgere una connessione diretta tra Manzoni e Cuoco, possiamo osservare un’«impronta». Il ponte tra i due è il filosofo napoletano Giambattista Vico, di cui Cuoco si fa portatore delle idee a Milano. Per Vico, le civiltà si esprimono attraverso le lingue, unione queste di filosofia e filologia, alla quale è attribuito il compito di condurci alla verità dei fatti. Manzoni ritorna più volte su questi aspetti. Egli esalta le idee di Vico ne Il discorso sui Longobardi: il filosofo è portatore di un pensiero fondato sull’osservazione di fatti noti, che vada a correggere gli errori e restituire la verità. Manzoni cita la Scienza nuova quando sostiene che «è propria della mente umana che gli uomini stimino le cose non conosciute basandosi su ciò che conoscono». Cuoco riprende alcune osservazioni vichiane sull’eloquenza, le cui posizioni si possono ritrovare nel manzoniano Saggio sulla rivoluzione francese

Nel Saggio Manzoni analizza il modo distorto di utilizzare la retorica dei rivoluzionari. Egli critica il fatto che la parola “popolo” era stata adoperata per indicare tutta la popolazione, quando solo una parte di essa aderiva alla Rivoluzione. Manzoni osserva la confusione che venne generata dall’uso che si fece dei termini “popolo” e “nazione”, come se fossero sinonimi; predica, perciò, attenzione: le parole e la realtà non corrispondono. Nel ragionamento manzoniano è presente una morale, laddove il linguaggio è stato elaborato dagli uomini per collaborare e non per ingannarsi. La moralità risulta essere intrinseca nella lingua: l’afflato pedagogico è già maturato in Manzoni. Anche Cuoco, nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, osserva come le parole dei francesi erano state esposte inadeguatamente: esse non potevano “parlare” ai napoletani. Come egli sottolinea nel Saggio, per ottenere una nazione unita popolo e intellettuali dovevano comprendersi tramite una “lingua” comune. Anche in Manzoni ritroviamo l’importanza di una lingua che sia parlata da tutti: un ideale pedagogico, che permane in tutta la riflessione linguistica manzoniana.

Librandi conclude tornando su Manzoni, per il quale il letterato non deve cercare concetti nuovi: l’efficacia migliore è mostrare ciò che non ci appare immediatamente per tramite di vocaboli conosciuti. L’abilità dello scrittore è accoppiare concetti noti, in modo da far apparire qualcosa non ancora visto: «Accozzi inusitati di vocaboli usitati».

Vittorio CriscuoloAlessandro Manzoni fra cattolicesimo e liberalismo

Chiude la prima sessione mattutina Vittorio Criscuolo, professore emerito della Statale, con Alessandro Manzoni fra cattolicesimo e liberalismo.

Criscuolo sottolinea come gli ideali politici maturati in giovane età da Manzoni non vennero mai rinnegati. Manzoni è fautore del programma nazionale: una posizione dissonante a inizio Ottocento nell’Italia settentrionale, dove vigeva una prospettiva municipalista. A causa della sua fedeltà agli ideali di libertà e al legame che egli ebbe con la visione illuministica, si deve porre il problema della sua posizione nel quadro del cattolicesimo liberale ottocentesco. Il cattolicesimo liberale deve essere inserito in una prospettiva europea. Importante è il confronto con Félicité Robert de La Mennais, che nel 1830 fondò il giornale liberale L’Avenir. Attorno a La Mennais gravitava il cattolicesimo liberale francese, a differenza della penisola italiana, dove agivano cenacoli divisi e Manzoni faceva «parte a sé». A uomini come lui non sfuggiva il nucleo del pensiero di La Mennais, propugnatore della separazione tra Stato e Chiesa. Emerge uno dei punti dei cattolici liberali francesi, i quali non volevano usare la religione in chiave politica, con il loro percorso che va distinto dalle posizioni neoguelfe.

Anche Manzoni, ci dice Criscuolo, è rimasto lontano dagli orientamenti neoguelfi. La difesa manzoniana di Adriano I, il papa che aveva “chiamato” i Franchi in Italia, non è intesa ad affermare il ruolo positivo del papato: protagonista è la Nazione, preservata dall’estinzione con la creazione altresì delle premesse per la sua rinascita. Manzoni intendeva affermare l’esistenza di un’Italia già unita e oppressa da dominazioni straniere successive, negando ogni assimilazione tra Latini, Longobardi e Franchi.

Il programma politico neoguelfo non riuscì a coinvolgere Manzoni nemmeno nel 1848. Infatti, per il letterato, la sfera religiosa deve essere separata da quella politica: l’etica cristiana agisce sull’animo di ognuno. La religione interviene nella politica indirettamente, grazie a chi si fa promotore di giustizia ispirandosi al Vangelo. Una posizione agli antipodi rispetto a quella del neoguelfismo di Vincenzo Gioberti, propugnatore di una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del pontefice. Criscuolo intende dare più complessità al pensiero di Gioberti, mettendo in luce l’esigenza di accompagnare la rinascita civile con una riforma ecclesiastica. Quest’ultima era anche uno dei punti del cattolicesimo liberale che insisteva sulla diffusione una religiosità più pura, superando sul piano religioso-devozionale il clima della Controriforma. Manzoni parlò per il tramite de I promessi sposi, scegliendo di ambientarlo nel Seicento, epoca controriformistica e devozionale. Non possiamo negare, secondo il professore, che sull’Italia gravasse allora un clima pesante dato dalla Controriforma. Da notare come Manzoni si guarda bene dal descrivere alcuni aspetti tipici della cultura controriformata; in questo senso, manca la religiosità popolare tipica del Seicento italiano. Infatti, egli ha inteso prestare ai protagonisti della sua storia un ideale puro di cristianesimo.

In conclusione, Criscuolo arriva alla radice del liberalismo manzoniano. Il letterato milanese era convinto che il sentirsi cristiano derivi dalla libera accettazione dell’individuo, nella quale la sacralità della coscienza si erge a limite invalicabile, soglia ove debbono arrestarsi tanto il potere politico quanto l’autorità ecclesiastica. Giunta l’unità d’Italia, Manzoni manifestò una «distanza morale dalla politica». Il pensiero, nota Criscuolo, corre a Sant’Agostino, sostenitore dell’idea che i secoli, se messi a confronto con l’eternità, non sono niente, così come le vicende umane.

Francesco Mores, La famiglia Manzoni. Cristianesimo e Chiesa nelle «Osservazioni sulla morale cattolica»

La seconda mattinata si è avviata con le parole della professoressa Michela Minesso, che ha introdotto il primo intervento. Francesco Mores discute il seguente tema: La famiglia Manzoni. Cristianesimo e Chiesta nelle «Osservazioni sulla morale cattolica».

La concezione manzoniana del Cristianesimo e della Chiesa trattata dal professor Mores si collega direttamente all’intervento introduttivo sulle «Osservazioni sulla morale cattolica» del professor Bizzocchi. Le parole di Mores indagano in modo assai più approfondito le concezioni religiose del famoso autore, ponendo l’accento anche sull’importanza di queste ne «La famiglia Manzoni» di Natalia Ginzburg. Prendendo le mosse proprio dal romanzo, il professore si concentra in che modo dall’autrice sia presentata l’importanza della religione nella figura non solo dell’autore, ma anche della di lui famiglia, in particolare della moglie, Enrichetta Blondel. Evidenziando dunque anche l’intenso rapporto nello scritto fra l’immagine e la prosa, in cui le immagini stesse servono a mettere in evidenzia la tortuosità interiore del Manzoni, Mores delinea come la Blondel (affiancata e preceduta dal ritratto del marito all’inizio del capitolo dedicatole) abbia avuto una vita alla luce della fede calvinista e delle ritualità cattoliche ed evangeliche. Battezzata con rito cattolico, fu educata dalla madre nella fede riformata e si sposò con formula ginevrina. Vitale importanza per la prima moglie del celebre intellettuale conservarono sempre i riti, come quello cattolico officiato a Parigi per il battesimo della loro prima figlia. L’importanza del rito è sempre sentita da Enrichetta e più in generale dalla famiglia, come dimostra la presenza di due ritratti nel romanzo, quello dell’abate Degola e del sacerdote Tosi, evidenziando ancora una volta l’inscindibilità del livello narrativo con quello iconografico nel lavoro dell’autrice. La spiegazione dei “fatti religiosi”, sottolinea Mores, può portare lo storico ad una ricerca in ambito letterario, soffermandosi sulla figura della stessa Blondel o del “miracolo di san Rocco”, evento col quale a Parigi Manzoni pare abbia ricevuto la grazia divina. Si potrebbe avanzare inoltre una spiegazione psico-patologica, essendo Manzoni un convulsionario come Degola, oppure limitarsi ad indicare le «Osservazioni» come testo giansenista o addirittura eterodiretto da Degola o Tosi. 

L’intento del professore, dunque, nella sua seconda parte dell’intervento, è stato quella di dimostrare come la concezione di Cristianesimo e Chiesa sia il frutto di due ritratti del Manzoni che convivono. La lunga vicenda editoriale del testo, che certo ha natura apologetica ma non può essere considerato filosofico-sistematico, ne è la dimostrazione, con le sue numerose edizioni e integrazioni, come quella del 1819, del 1855 e del 1887. Particolare attenzione è stata dedicata alla risposta del Manzoni a Sismondi sull’unità della fede, dimostrando come la fede stessa e la ragione nell’autore non siano in contraddizione poiché provenienti dal medesimo logos. Su quest’ultimo lemma verte il nocciolo della considerazione di Mores. Se egli applica al termine l’accezione di “ragionevole”, il Manzoni invece fa uso di “razionale”, con una duplice conseguenza. La prima è dimostrata approdando ad una concezione più secolarizzata del cristianesimo, la natura inclusiva dello stesso; la seconda è che in virtù dell’unità religiosa e politica, vige anche l’unità della fede e della ragione, che trova la sua massima espressione nella Chiesa cattolica, mostrando una natura meno inclusiva. Mores, difatti, dimostra così come l’applicazione della concezione giansenista al grande autore sia errata e lo sia anche l’accostamento delle concezioni manzoniane al cattolicissimo «Sillabo degli errori moderni» di Pio IX, poiché nel grande autore meneghino convivano due concezioni di Cristianesimo, una più inclusiva e l’altra più esclusiva.

Nicola del Corno, La «Biblioteca italiana» e la Milano legittimista. La direzione di Giuseppe Acerbi (1814-1826)

L’ultimo intervento della mattinata è quello del professor Nicola del Corno, La «Biblioteca italiana» e la Milano legittimista. La direzione di Giuseppe Acerbi, che sposta il focus del convegno dalle concezioni religiose dell’autore all’aspetto letterario e politico. 

Fondata nel 1815 per iniziativa del Conte di Bellegarde, governatore della Lombardia, essa si profilava il compito di osservare, dando una certa libertà di espressione, l’opinione pubblica intellettuale lombarda e rettificare le opinioni derivate dalla precedente esperienza di governo che aleggiavano ancora nelle menti intellettuali, figli di un fervido panorama culturale. A tal scopo sono state evidenziate due lettere alla redazione da parte del Governo, una del 1815 e l’altra dell’anno successivo, che colgono anche l’occasione di ribadire la totale subordinazione della rivista a Vienna. La direzione venne proposta a Foscolo, che rifiutò comprendendo il fine politico al di sotto di quello letterario e ponendo dunque fine al progetto austriaco di o «annientare» o «conquistare» intellettuali liberi come lui. 

La proposta passò dunque a Monti, che declinò l’offerta, indicando come possibile candidatura l’Acerbi. Costui, originario di una famiglia borghese mantovana, con una gioventù passata a Londra ed a Parigi con idee filo-giacobine ed illuministe, accettò, sebbene si fosse messo al servizio degli austriaci per intraprendere la carriera diplomatica. 

La direzione Acerbi, che vide la sua conclusione nel 1826, fu costellata da un’inziale successo del primo anno di tiratura e da un’imponente e repentino declino. Questo fatto si deve generalmente ad un fattore burocratico. Se nel primo anno, infatti, era stata imposto a molti Comuni del Lombardo-Veneto l’abbonamento alla rivista, dopo precisa puntualizzazione del Governo in direzione contraria, gli abbonamenti diminuirono e lo stesso Acerbi ne risentì, tanto che, quando lasciò la direzione, fu creditore di ingenti somme. Il successo della rivista, tuttavia, in un primo momento fu penetrante, poiché vedeva una collaborazione con un gran numero di intellettuali, stipendiati dalla direzione. Basti citare, ad esempio, a un numero del 1816, con il celeberrimo articolo di Madame de Stael «Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni», che esortava gli italiani ad una maggiore conoscenza delle letterature straniere, in particolare quella tedesca, dimostrandosi così perfettamente allineata con il Governo di Vienna. Un impegno questo che sempre ebbe come prerogativa primaria la direzione dell’Acerbi, il quale, nel 1818, in uno dei proemi che aprivano i numeri della rivista, non esitò ad indicare che il fervore intellettuale lombardo e meneghino, rispetto al meridione, fosse direttamente dipendente dall’atteggiamento liberale austriaco. 

La figura del Manzoni all’interno di questo periodo fu toccata due volte. Primariamente quando lo stesso direttore lo contattò, nel 1816, per scrivere sulla rivista. L’intellettuale rifiutò, negando la partecipazione a qualsiasi associazione letteraria. Sulle pagine della rivista egli ritornò successivamente, ma non come autore, rimanendo egli fedele a quanto esclamato nel 1816, ma come oggetto di critica. Ciò avvenne per mano di Paride Zajotti, futuro magistrato che negli anni Trenta del XIX secolo prese le mosse contro la Giovine Italia. Nel 1824 egli criticò l’«Adelchi», evidenziano la scarsa passionalità dei personaggi, nel 1827, invece, due articoli vennero dedicati ai «Promessi Sposi». In questi si dimostrò come Renzo e Lucia fossero troppo umili per essere protagonisti di un’opera letteraria. Non fu inoltre risparmiata una critica ancor più aspra, ovvero l’amalgama di fatti veri ed immaginari, di personaggi storici e irreali. Le critiche dello Zajotti sul romanzo storico si collocano in un periodo in cui la direzione Acerbi era già terminata. Giuseppe Acerbi, infatti, riuscì ad ottenere finalmente il ruolo di diplomatico, esercitando la sua professione ad Alessandria d’Egitto. Ammalatosi agli occhi, fece ritorno in Italia e morì nel 1846. La sorte della sua rivista oramai era già segnata da un lento declino. Nel 1841 fu difatti assorbita dall’Istituto Lombardo dell’Accademia delle Scienze e delle Lettere. 

Giacomo Vignodelli, Il mito di Algiso, dal Chronicon Novaliciense all’«Adelchi»

La professoressa Dattero ha presieduto alle presentazioni del primo pomeriggio, che si aperto con l’intervento del professor Vignodelli: Il mito di Algiso, dal Chronicon Novaliciense all’«Adelchi»

Il dramma manzoniano fu oggetto di un profondo ripensamento nel 1821 poiché la figura di Adelchi mancava completamente di fondamenti storici. In particolare, il dato infondato era l’esistenza di uno spirito italiano nel volgo disperso, tramite il quale Longobardi (gli oppressori) e Latini (gli oppressi) avrebbero potuto unire le forze contro l’invasore franco. Un’alleanza questa proposta dallo stesso Adelchi in cui circostanze nella tragedia, la cui prima stesura viene cancellata nettamente. 

Le «notizie storiche» preposte alla tragedia permettono di conoscere il profondo rapporto dell’autore con le fonti, a partire dal racconto della Cronaca tramite l’edizione contenuta nei Rerum Italicarum Scriptores di Ludovico Antonio Muratori del 1726. Essa, benché costituisse la fonte principale del suo lavoro, arrivò a ritenerla inaffidabile. Tuttavia, è la Cronaca stessa a chiarire un passo controverso della tragedia, in cui un giullare avrebbe reso possibile l’aggiramento della Novalesa a Carlo. Un fatto ritenuto plausibile da Manzoni e da cui partì il racconto sulla missione del diacono Martino, colui il quale ha realmente condotto i Franchi. Il giullare, invece, è ripreso nella tragedia attraverso la figura del traditore Svarto.

Lo scrittore trae dalla Cronaca anche la figura eroica di Adelchi, che combatte incessantemente con i Franchi prima del loro aggiramento delle Chiuse e che cede per ultimo alla presa di Pavia.

La Cronaca è la prima fonte medievale a trattare Adelchi come il protagonista della vicenda, andando in contrasto con le poche fonti coeve al periodo del conflitto. A differenza di Desiderio, Adelchi non subirà un processo di rivalutazione, ma nella Cronaca trova molto spazio, addirittura anche dopo la caduta di Pavia. Egli si presenta a un banchetto di Carlo sotto mentite spoglie, per poi fuggire a Brescia dalla madre. Un’ipotesi plausibile è la presenza di una perduta leggenda di forma analoga al ciclo arturiano: la speranza di una riscossa longobarda con il ritorno dell’ultimo re, scomparso ma non defunto.

Analizzando la Cronaca in base al contesto e ai fini che l’hanno prodotta, la questione può essere posta sotto un’altra prospettiva. L’opera ha lo scopo di riallacciarsi alla tradizione della Val di Susa, poiché il monastero fu costretto a spostarsi nei pressi di Ivrea a inizio X secolo. La Cronaca serve proprio a radicare il controllo sulla valle in vista di un possibile ritorno, richiamandosi all’antichità carolingia e al ruolo giocato dal monastero all’epoca del conflitto.  

Il secondo libro della Cronaca presenta una leggenda che affianca quella di Adelchi: quella di Valtario. Eroe alla corte di Attila, egli si era fatto monaco proprio alla Novalesa, fornendo un exemplum di vita: un grande guerriero che concilia valori militari con valori monastico-religiosi. Una storia molto apprezzata, che concerne anche altri personaggi.

C’è però una tematica, sottolinea Vignodelli, che è stata finora sottovalutata. Come già detto, alla fine della vicenda egli si ricongiunge con la madre, Ansa, a Brescia, che aveva fondato il monastero di Santi Faustino e Giovita. La Cronaca presenta qui un errore: Ansa aveva non fondato il monastero in questione, bensì quello femminile di Santa Giulia. Secondo il professore, non siamo di fronte a un errore, ma a una scelta dell’autore per chiarire la logica del racconto: il monastero in questione è maschile e, non a caso, è quello in cui Adelchi conclude la sua vicenda, proprio come aveva fatto Valtario. 

Il motivo di una conservazione ed elaborazione di tale lavoro è che la parentela più importante del reichsadel è quella detta “Supponide”, radicata a Brescia e con forti richiami nell’onomastica agli ultimi re longobardi. È proprio quindi nei circoli supponidi che può essersi sviluppata la figura eroica di Adelchi. 

Paolo Grillo, Un condottiero fra storia e tragedia: il «conte» di Carmagnola

Il secondo intervento del primo pomeriggio è tenuto dal professor Paolo Grillo e prende il titolo di: Un condottiero fra storia e tragedia: il «conte» di Carmagnola.

Il Carmagnola è uno dei più grandi capitani di Ventura nell’Italia del XV secolo. Sin dal 1412, egli serve i Visconti sotto Filippo Maria, politicamente e militarmente, distinguendosi nella battaglia di Arbedo presso Bellinzona, dove sconfigge gli Svizzeri. Nel 1425 passa sotto Venezia e nel 1427 riporta la grande vittoria di Maclodio proprio contro i milanesi, ma non riesce a condurre altre campagne di significativa efficacia. In questa situazione di crisi, viene sospettato di tradimento dai Veneziani, che lo arrestano, processano sommariamente e lo giustiziano nel 1432. La figura del Carmagnola è tanto affascinante quanto poco studiata. Siamo di fronte, enfatizza il professor Grillo, a una situazione in cui il personaggio storico è stato marginalizzato da quello letterario; lo scopo è quindi quello di analizzare quanto la tragedia di Manzoni abbia influito su questo.

Lo stretto rapporto fra lo scrittore milanese e la storia è ravvisabile nella nota storica della tragedia, in cui vi parla delle fonti, in particolare i Rerum Italicarum Scriptores, e degli storici a lui contemporanei. Nel trattare questi ultimi, però, Manzoni si sofferma su quelli meglio “presentabili” al regime austriaco, come Pietro Verri, non tenendo in considerazioni figure altrettanto importanti come Simondo Sismondi e, soprattutto, Francesco Lomonaco. Quest’ultimo ottiene la commissione di comporre l’opera per creare un’identità nazionale locale, con lo scopo di presentare una serie di eroi a cui gli italiani avrebbero dovuto rifarsi. Tuttavia, all’esaltazione militare e morale si affianca una critica al contesto in cui agivano, ritenendo tali conflitti futili. 

Queste sono premesse su cui in parte giace l’impostazione manzoniana della tragedia. Aldo Settia sottolinea come l’Accademia delle Scienze di Torino avesse bandito un concorso, il cui successo fu estremamente esiguo. L’unica influenza che ebbe Il conte di Carmagnola fu su un dibattito aperto da Luigi Cibrario nel 1834 sulla sua innocenza. La stessa dicitura “conte di Carmagnola” è errata, poiché egli era conte di Castelnuovo Scrivia, ma, per ragioni commerciali, non viene modificata.

Un altro problema è il rapporto fra gli studi sui condottieri italiani e quelli sul Carmagnola. Sin dagli anni ’40 dell’Ottocento, la figura del Carmagnola è marginalizzata e continuerà ad esserlo in epoca fascista, non considerando la vittoria sugli svizzeri del conte in un’ottica di guerra contro potenze stranire. La medesima propensione si riflette in ambito scientifico: egli non trova spazio né nel lavoro di Piero Pieri del 1934 né nella voce del Dizionario biografico degli Italiani di Bueno de Mesquita (1972).

Le motivazioni addotte dal professor Grillo sono diverse: dalla visione toscano-centrica del Risorgimento italiano, dove un condottiero del nord Italia non trova lo spazio di altri, alla modestia dei suoi coetanei, che lo ritraggono come un arrogante che tenta di valicare il proprio status. Una ragione più plausibile è data dal fatto che gli storici militari del XV secolo hanno tentato di dare una visione “genetica”, secondo cui Carmagnola non rientra in nessuna delle due “scuole” (Bracceschi e Sforzeschi), discendenti dal comune maestro Alberico da Barbiano. È però innegabile la responsabilità della tragedia, in cui Manzoni lo dipinge come un eroe sbagliato per un tempo sbagliato, braccio armato di discordie interne che porteranno alle invasioni straniere di fine Quattrocento. 

Tuttavia, conclude Grillo, esiste un filone che va contro questa tendenza: quello anglofono. Nelle opere di Michael Mallett e nelle recente enciclopedia Oxford, ad esempio, il conte trova molto più spazio, forse proprio per il fatto che l’opera manzoniana ha influito molto meno in questo contesto.

Gianclaudio Civale, I delitti del sagrato. Ancora di violenza e bravi nella Lombardia spagnola

Conclude gli interventi del primo pomeriggio il professor Gianclaudio Civale, docente di Storia dell’età del Rinascimento e di Storia dell’età della Riforma e della Controriforma presso l’ateneo milanese ed esperto di Inquisizione e violenza religiosa. La sua relazione, dal titolo I delitti del sagrato. Ancora di violenza e bravi nella Lombardia spagnola, affronta il tema della violenza aristocratica di prima età moderna, presentata nei Promessi Sposi attraverso il controverso personaggio dell’Innominato, simbolo di quella sopraffazione e arbitrio, ma anche di possibile redenzione, che aveva caratterizzato quel contradditorio e doloroso secolo, secondo Manzoni, che fu il Seicento. 

Per la sua caratterizzazione lo scrittore si ispirò all’autentico caso di un signore milanese, celebre per i suoi delitti e poi convertito dal cardinale Federico Borromeo; e sebbene l’autore abbia rispettato nel suo romanzo l’anonimato con cui le fonti presentavano tale individuo, furono proprio le sue ricerche d’archivio tra le carte dei governatori di Milano a permettergli di identificarlo nella persona di Francesco Bernardino Visconti, membro di un ramo cadetto della gloriosa casata milanese e feudatario di Brignano, nella Gera d’Adda. 

Il caso del Visconti, con il suo lungo elenco di crimini compiuti sin da giovanissimo, le ripetute sentenze di espulsione, l’organizzazione di una banda di servitori e nobili locali con cui instaurare nei propri possedimenti un clima di terrore contro chi contestava ed insidiava la sua autorità e il suo onore, fu solo uno degli innumerevoli esempi di quel comportamento tipico dell’aristocrazia minore del periodo, che fece del ricorso all’intimidazione, alla violenza sociale e territoriale e allo strumento privatistico della Pace (il risarcimento della vittima) il mezzo per riaffermare una preminenza minacciata dall’erosione patrimoniale e dall’ingerenza degli organismi amministrativi e giudiziari statali. I Libri Banditorum, liste governative dei crimini e delle condanne dei rei, presentano migliaia di casi di delitti e sono fonti privilegiate per l’analisi della pervasività e dell’evoluzione della violenza nel territorio milanese di XVI e XVII secolo. 

Civale si sofferma ad esaminare e approfondire un particolare tipo di delitto, quello compiuto all’interno di spazi sacri, il più estremo perché unisce l’efferatezza al sacrilegio, e presente tra le pagine del romanzo manzoniano nella versione del Fermo e Lucia. Qui compare l’episodio di un assassinio compiuto dal futuro personaggio dell’Innominato sul sagrato di una chiesa, crimine così brutale da appiattire la personalità di chi l’ha compiuto, e per questo poi rimosso nella versione ventisettana. 

Le fonti dell’epoca presentano un numero consistente di misfatti, di varia gravità, avvenuti nei pressi dei luoghi religiosi e compiuti non solo da rappresentanti del ceto nobiliare contro i propri pari ma anche da semplici popolani, di cui il relatore offre un ricco ed interessante elenco. L’utilità pratica per i colpevoli di potersi avvalere del diritto d’asilo sembra essere senza dubbio una spiegazione esatta, ma non sufficiente. Vi era infatti anche una ragione di spettacolarizzazione pubblica delle proprie prerogative, della vendetta del proprio onore e dell’appartenenza campanilista o di fazione, che richiedevano un riconoscimento da parte del consorzio sociale per essere affermate, da cui la scelta della Chiesa e delle celebrazioni religiose come scenario per la rivendicazione violenta di tali attributi, in quanto luoghi di aggregazione comunitaria. Con l’omicidio del sagrato Manzoni volle quindi condensare in un’unica immagine tutta la violenza e l’arbitrio di quello che, secondo lui, era stato un secolo bestiale.  

B. Alice Raviola, «Incidentemente, a governare»: Ambrogio Spinola e la guerra di successione di Mantova e del Monferrato nelle pagine manzoniane

Si apre quindi, nel tardo pomeriggio, l’ultima sessione della giornata, presieduta dal professor Vittorio Criscuolo. È il turno di Blythe Alice Raviola, titolare delle cattedre di Storia Moderna e di Storia dell’Europa in età moderna alla Statale di Milano, studiosa di piccoli stati, specialmente il Piemonte sabaudo, e di pensiero politico tra Cinque e Seicento. 

Nel suo intervento, intitolato «Incidentemente, a governare»: Ambrogio Spinola e la guerra di successione di Mantova e del Monferrato nelle pagine manzoniane, Raviola ritorna su quei capitoli de I Promessi Sposidedicati alla descrizione della seconda guerra di successione di Mantova e del Monferrato, sfondo geopolitico in cui è calata la trama del romanzo, spesso trascurati ma necessari per vagliare l’interesse e l’interpretazione dell’ultima storiografia sulle guerre di successione italiane di primo Seicento e sui loro protagonisti. Fra questi viene scelto di approfondire la figura di Ambrogio Spinola, il generale genovese eroe della guerra di Fiandre, governatore dello Stato di Milano dal 1629 fino alla sua morte nell’anno seguente e personaggio marginale manzoniano. Aspramente criticato dall’autore, quest’ultimo lo introduce nella narrazione nel momento della presa del suo incarico avvenuta sulla scia dell’umiliante allontanamento del suo inetto predecessore, Gonzalo Fernandez de Cordova, rimosso per demeriti militari e disprezzato dal popolo che lo accusava della carestia. Il giudizio negativo di Manzoni sullo Spinola è motivato dal suo essere rappresentante sia di quei capitani militari alla guida di devastatori eserciti mercenari sia dell’incapace governo spagnolo milanese: indifferente alla cura della popolazione a lui affidatagli, afflitta dalla peste, perché completamente assorbito dalle difficili questioni militari nel Monferrato, che per giunta si conclusero in un fallimento. Un passo significativo per la visione del Manzoni sul governatore è presente nel capitolo XXXII, dove viene narrato come, alle richieste della cittadinanza di attuare misure per l’alleviamento del peso della peste, questi rispose in modo elusivo e per giunta esprimendosi in lingua spagnola, ad incarnazione di quel potere che era percepito come distante, sordo e straniero.   La riprovazione si estende anche alla storiografia e ai commentatori coevi dello Spinola, intenti a celebrarne le grandi qualità e i successi militari disegnandone un profilo positivo ma incapaci di valutarne l’operato umano, che per Manzoni fu deludente: egli sprecò le sue qualità non indirizzandole verso la protezione del popolo, risultando uno sprovveduto.  

L’esposizione procede con alcune considerazioni sulla posizione manzoniana nei confronti della guerra, responsabile di aver trasmesso, almeno tra i suoi lettori, l’idea di un conflitto stupido ma soprattutto illogico, accusa, quest’ultima, che non può essere condivisa in quanto questo fu invece perfettamente collegato al contesto turbolento del Seicento europeo, anche se incomprensibile dalla visuale popolare che guida l’opera. Ma con acume storico il Manzoni riesce a farsi portavoce, sarcastico, anche di una posizione opposta, quella degli intellettuali secenteschi impegnati nella riflessione sulla ragion di stato, rappresentati dalla biblioteca di un Don Ferrante alle prese col personale dilemma di scegliere quale sia il più grande pensatore politico dei suoi tempi.Torna, allora, nel discorso, lo Spinola e la sua frequentazione alla corte madrilena con l’autore de La ragion di Stato, Giovanni Botero, come prova di quanto stretta fosse la contiguità tra teoria e pratica politica, che si ispiravano reciprocamente. 

La professoressa chiude l’intervento con il riconoscimento della straordinaria capacità dei capitoli manzoniani di tenere insieme un’intricatissima rete di elementi discordanti, la storia e la trama, la teoria politica e i fatti, il vero e il verosimile, con lampi degni non solo del disegno provvidenzialistico di XIX secolo ma anche della pratica della dissimulazione tipica di quel Barocco di cui Ambrogio Spinola fu espressione.

Stefano Levati, Il ruolo ambivalente degli osti in età moderna: controllori e controllati

L’ultimo contributo della giornata è quello di Stefano Levati, studioso di storia sociale, della famiglia, degli eserciti e dei consumi nella tarda modernità lombarda e italiana, e anch’egli docente a Milano, per i corsi di Storia moderna e Storia culturale dell’età moderna. Dopo una galleria di personaggi illustri, Levati ci introduce, con la sua relazione Il ruolo ambivalente degli osti in età moderna: controllori e controllati, nel mondo dei personaggi comuni, quello dei proprietari di osterie, figure anonime e minori non solo nelle pagine manzoniane ma anche, per lungo tempo, nella produzione storiografica, sebbene il loro ruolo rilevante nella società di antico regime. 

Nel IV capitolo de I Promessi Sposi viene presentato ai lettori Renzo alle prese con un oste nell’esercizio di una speciale funzione di cui le autorità milanesi del tempo avevano incaricato l’intera categoria professionale, ovvero la registrazione delle generalità dei propri ospiti a scopo di controllo dell’ordine pubblico, una pratica che era ancora riscontrabile all’epoca in cui visse il Manzoni. 

Le osterie furono spazi centrali per la società di età moderna: luoghi d’incontro per i residenti e di accoglienza per viaggiatori di ogni grado, i quali trovavano negli osti delle figure di riferimento come prestatori di servizi ed informatori locali, anche per quella massa crescente di disoccupati e vagabondi che dal contado si riversava in città in cerca di sostentamento, e fu questo ruolo a spingere i governi d’età moderna a coinvolgere i loro gestori nella sorveglianza pubblica.  Le prime ordinanze milanesi a prevedere l’assegnazione agli osti di questo incarico speciale risalgono al 1583, e dispongono che questi denuncino la presenza di bravi e vagabondi, ovvero quei nuovi poveri che la polizia considerava come portatori di instabilità e quindi insicurezza.  

Con la peste del 1630 non furono più i poveri al centro delle paure governative bensì i forestieri, in quanto potenziali contaminatori. È questo lo scenario in cui viene collocato il suddetto episodio manzoniano, che l’autore, con dovizia documentaria tipica del suo metodo, accompagna con la citazione della grida del 1633 in cui compare l’obbligo per tavernieri e albergatori di registrare le generalità degli stranieri oltre la loro segnalazione. 

Finita la peste le nuove politiche di accoglienza, promosse per ripopolare la città, portarono ad una sospensione delle normative contro i forestieri, salvo poi essere riprese a partire dagli anni Settanta, quando le nuove tensioni diplomatiche causate dall’aggressività di Luigi XIV portarono a considerare i francesi come pericolosi nemici politici. Vennero allora ribadite le incombenze di controllo assegnate agli osti, le quali non subirono grandi cambiamenti nel corso del XVIII secolo, neppure durante il passaggio alla dominazione austriaca. 

Con l’instabilità, invece, dell’età rivoluzionaria si assistette ad un inasprimento e ad una pervasività della sorveglianza sulla mobilità dei forestieri, presunti portatori di dissidenza politica, e ad un aumento delle incombenze degli osti, che accanto ai loro ormai tradizionali compiti, si videro assegnare anche quello di informare i proprio ospiti sulle nuove e stringenti norme che regolavano la circolazione degli stranieri nel territorio della repubblica. 

La svolta, però, avvenne durante la fase napoleonica, con l’emanazione di una serie di misure sempre più stringenti, anche di tipo penale, volte ad obbligare gli elusivi locandieri al rispetto dei loro incarichi. L’intento era quello di vigilare più che gli stranieri piuttosto gli stessi osti, sospettati di connivenza con mal viventi e irregolari e per questo trasformati da controllori a controllati. 

Michele Brusadelli, Flavio Luigi Fortese, Matteo Crespi e Stefania Maria Alessandra Majocchi