Tesi magistrale in Scienze Storiche, a.a. 2023-24, relatrice prof.ssa Giulia Bassi, correlatore prof. Paolo Zanini.
Il Partito Comunista Italiano ha affinato, nel corso degli anni, una prassi riconosciuta nella gestione della morte e del dolore da essa provocata, a tal punto da rendere il momento celebrativo del rituale funebre una ricorrenza: benché macabra e sempre «prematura», a quella ricorrenza i militanti partecipavano attivamente, facendosi parte dialogante con la direzione del Partito che, simbolicamente e retoricamente, organizzava e metteva in scena il funerale.
Nel primo capitolo si approfondisce il tema della morte politica in Italia e nel movimento comunista internazionale, cercando di cogliere convergenze e discontinuità tra l’atteggiamento dei regimi politici novecenteschi e quello adottato dal PCI. Ci si accorge, in prima battuta, che la concezione della morte delle idee politiche «antiborghesi» è simile a quella del periodo precedente all’affermazione del liberalismo nel corso dell’Ottocento: i suoi effetti, per quanto sempre dolorosi, sono, all’interno dei sistemi alternativi a quello borghese, normalizzati e interiorizzati; la morte e il rituale funebre perdono il loro connotato lugubre e diventano un’occasione di «festa», di riconoscimento, di autoaffermazione. In questi momenti apotropaici, il PCI ribadisce e rafforza il suo carattere religioso, generando un credo e una devozione assoluta nell’identità, quindi nella storia, del partito: il momento della morte di un dirigente, diventando l’occasione per affermare la forza e l’organizzazione del partito, diviene funzionale all’obiettivo finale della fondazione di una società socialista.
Nel secondo capitolo si conduce un’indagine che prende avvio dal 1937, anno della morte di Gramsci, e arriva a quella del segretario generale Palmiro Togliatti nel 1964. Il “non funerale” di Antonio Gramsci, «capo della classe operaia», è il punto di partenza per scoprire come il discorso del PCI attorno ai propri dirigenti scomparsi si sia evoluto e abbia conosciuto dei cambiamenti radicali e allo stesso tempo impercettibili e normalizzati nella rappresentazione di sé. Dalla metà degli anni Cinquanta si sviluppa un discorso intriso di riferimenti all’esperienza della fondazione del PCdI nel 1921 e al periodo della lotta antifascista. Prevale, in questa fase, l’elaborazione di un discorso apologetico dell’esperienza comunista inquadrato ancora, seppur con crescenti difficoltà a partire dal 1956, nel movimento comunista internazionale, che pone l’Unione Sovietica come punto di riferimento imprescindibile. Si afferma nel corso degli anni una sempre maggiore inclinazione del partito a concentrare l’attenzione retorica verso lo sviluppo della «via italiana al socialismo» e quindi a rimodulare la politica del passato alle necessità del presente, oscurando dissapori e disaccordi, occultando ostilità e scontri interni, creando una narrazione coerente e lineare per cui il dirigente scomparso è vissuto e, nelle parole funebri, «continuerà a vivere». Dopo la morte della generazione che è passata attraverso lo sviluppo del movimento socialista in Italia e le crudeltà fasciste negli anni Venti e Trenta, nel periodo compreso tra il 1977 e il 1984 scompare un numero considerevole di dirigenti del partito: da Longo a Terracini, da Amendola a Berlinguer. Sono gli anni in cui il PCI vuole accreditarsi come una credibile forza di governo: anche se nella retorica, così come nei fatti, il PCI rimane sempre al di fuori del governo, esso si presenta come il più autentico rappresentante dell’identità nazionale e repubblicana. È in questo contesto che il discorso funebre si concentra sempre più sulla duplice appartenenza nazionale e internazionale del partito, privilegiando la prima a scapito della seconda, raccontandoci quindi di un’identità che, pur avendo sempre previsto questa duplice appartenenza della lotta socialista, fa i conti con una politica che è rivolta ormai al sempre maggiore allontanamento dall’URSS e dalla sua egemonia nel campo socialista.
Le domande da cui sono partito si sono trasformate e articolate in questioni di più largo respiro. Alla domanda «con quale scopo il vertice del partito comunica la morte dei propri dirigenti?», si risponde facilmente: ognuna delle occasioni celebrative, compresa quella funebre, è un momento in cui il partito legittima la propria storia e la propria identità. Da qui la domanda «di quale identità si tratta?». L’identità del PCI, e per estensione la sua cultura politica, i suoi riferimenti narrativi, i suoi propositi politici, evolvono nei decenni nazionalizzandosi sempre più, perdendo quel carattere internazionalista basato sull’appartenenza al campo socialista guidato dall’URSS. Nelle dinamiche della Guerra Fredda il PCI sviluppa una politica che prevede una prospettiva di autonomia e indipendenza sempre maggiori. Da qui nasce, in occasione della morte di un dirigente, la necessità di canonizzarne la figura ed esaltarne l’operato così da poter inserirne la biografia in una narrazione agiografica e legittimante la storia del partito. L’identità comunista è quindi allo stesso tempo nazionale ed internazionale, italiana e comunista. La politica del partito tende però, allontanandosi dalla protezione sovietica, a sviluppare un carattere specificamente nazionale, e questo si rispecchia nella creazione di una narrazione che evidenzia e sottolinea l’appartenenza «italiana» e «nazionale». Negli anni sembra essere la «diversità» il valore su cui si fonda l’identità del PCI, diversità dal comunismo dei paesi del socialismo reale e diversità dagli altri partiti politici italiani corrotti e deviati. La domanda quindi se «il partito comunista è più italiano o comunista?», domanda che sembra malposta, trova risposte nell’incertezza del mutamento che coinvolge il mondo e il sistema della Guerra Fredda tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Il crollo progressivo del sistema comunista sovietico ha comportato un generale indebolimento dei partiti comunisti di tutta Europa e nel mondo. Essendo venuta meno l’identità comunista delle origini, sembra affermarsi un’identità basata sull’appartenenza al fronte antifascista, quindi un suo assorbimento “patriottico” nel sistema costituzionale e repubblicano. La «diversità» diventa quindi la pretesa di un’alterità che non trova mai uno sfogo concreto per diventare egemone. I funerali degli ultimi dirigenti sono segno tangibile di questo mutamento di prospettiva: non è rara la sovrapposizione simbolica della duplice appartenenza identitaria, come nel caso dell’Internazionale cantata ai funerali di Stato organizzati per Terracini, fondatore del PCd’I ma anche fondatore della Repubblica Italiana.
La domanda «che cosa significa essere comunisti?» indica una direzione di ricerca da perseguire con più convinzione, ovvero: «che cosa significa essere italiani?». Lo studio del rituale funebre organizzato dal PCI consente di interrogarsi sulle questioni fondanti la legittimità del potere in Italia, in primis l’antifascismo, e quindi sulle modalità di rappresentazione dei partiti repubblicani. È attorno a questo interrogativo che si risolve la duplice appartenenza locale e mondiale del PCI: l’antifascismo come esperienza nazionale inquadrata al tempo stesso nel contesto internazionale, impossibile da obliare, che spinge a considerare l’esperienza fondativa del secondo Novecento non solo all’interno dei confini patriottici, ma anche nel più ampio orizzonte di senso dell’ideologia marxista e comunista.
Gabriele Coccia