Giaime Alonge, Un’ambigua leggenda. Cinema italiano e grande guerra, il Mulino, Bologna, 2020

Le fonti sono sempre state alla base della storiografia moderna: l’analisi di queste è il vero e proprio collegamento tra il passato e il presente. Il rapporto, nella storia contemporanea è, almeno parzialmente, differente. In virtù degli sviluppi tecnologici, le fonti non vanno più interrogate poiché sono loro invece a parlare a noi. Questo si propone di analizzare Giaime Alonge, che della storia del cinema ha fatto il suo campo specialistico scrivendo tra l’altro alcuni libri celebri anche sul cinema d’oltreoceano.  Scritto in occasione del centenario dall’entrata dell’Italia nella Grande guerra questo nuovo volume, nel suo contenuto numero di pagine si propone di analizzare il difficile rapporto tra il cinema italiano e il Primo conflitto mondiale con una particolare attenzione al cinema italiano. La lettura risulta particolarmente gradevole, anche grazie all’uso di un buon numero di immagini, fotogrammi emblematici che riescono a comunicare efficacemente al lettore i concetti descritti dall’autore, siano essi i grandi quadri viventi di La presa di Roma o comici siparietti di Maciste alpino. Il periodo preso in analisi parte ancora prima dell’entrata in guerra dell’Italia, enfatizzando l’importanza del cinema nel formare l’opinione pubblica, nel tentativo di spingere verso l’interventismo. Vediamo attraverso il primo capitolo la situazione del cinema italiano e i mezzi di cui poteva disporre per la mobilitazione mediatica. Per fare questo l’autore si appoggia alle recensioni e ad alcuni articoli di giornali italiani dell’epoca tra cui figurano alcuni nomi noti che il lettore non fa fatica a riconoscere. Meno facili da riconoscere sono le citazioni ad altri esperti del settore come Pierre Sorlin e ovviamente Gian Piero Brunetta.

È nel secondo capitolo che l’analisi si fa tanto profonda quanto interessante, la guerra investe l’ambiente della produzione italiana e lo trasforma. L’analisi si sofferma su dettagli cinematografici che possono sembrare poco verosimili ma che vengono spiegati con dovizia di particolari. Primo fra tutti l’arresto delle esportazioni dovuto alla guerra impoverisce le case di produzione causando un congelamento della produzione dei film stessi. Senza risorse sufficienti devono quindi rivolgersi all’ente più ricco nella penisola, lo Stato. Viene quindi esplorato il sistema della censura di guerra, che non opera a posteriori, come quella a cui si potrebbe pensare ad oggi, ma che invece viene esercitata tramite una revisione preliminare del soggetto registico che riceve i fondi statali solo dopo l’approvazione, un passaggio che può ovviamente venir accompagnato da una richiesta di modifiche. È proprio in questo capitolo che il lettore, sia esso un appassionato o un esperto, inizia a vedere le crepe nella costruzione del cinema sulla Prima guerra mondiale. Il continuo focus sul singolo soldato non restituisce l’immagine della reale guerra di massa. La tesi dell’autore è bene esposta e chiara: il cinema italiano tanto quanto quello francese, tedesco e inglese non era pronto alla sfida mediatica. Nonostante quello che si potrebbe desumere dalle prime pagine del capitolo, la reazione delle produzioni italiane non è così arretrata, la produzione di cinema di finzione è estremamente efficiente, il suo scopo è quello di mettere a tacere le voci che arrivano dal fronte. Il più grande successo di questo filone è proprio quello di convincere il popolo italiano che stanno combattendo una guerra nobile, irredentista a tratti, una sorta di completamento del Risorgimento. L’autore sottolinea questo evidenziando, uno dopo l’altro, una serie di film in cui vengono mostrati elementi risorgimentali immersi nella realtà della Grande guerra. Ne sono un esempio le cariche della cavalleria reale e alcuni richiami non del tutto velati alla figura di Garibaldi. Qui la struttura del testo diventa meno scorrevole. Forse anche in funzione dell’elevato numero di contenuti da riassumere in così poche pagine, la narrazione si fa densa. Questo, nonostante renda meno piacevole la lettura (le immagini prese dai film diventano più rare) ci restituisce benissimo l’enorme numero di film prodotti per lo scopo: siamo sommersi da una serie di titoli di film e nomi di registi. Non diversamente dal fronte, avviene la mobilitazione generale dei registi.

È solo nel capitolo successivo con l’elaborazione del lutto che il volume torna a scorrere piacevolmente introducendo nuovi concetti. I film cambiano, non possono più negare la realtà della guerra che i sopravvissuti, tornati a casa, raccontano. Inizia quella che l’autore definisce “elaborazione del lutto”, vengono realizzati film a tema documentaristico che hanno un duplice scopo, mostrare la realtà in cui i soldati si trovavano e al tempo stesso i risultati dei loro sforzi.  L’autore pone una particolarmente gradita attenzione alle registe donne, che sebbene non siano in grande numero, meritano una notevole menzione soprattutto per la loro visione della guerra che ci porta un punto di vista inedito e a volte, dimenticato. Non viene trascurata nemmeno l’analisi di una spaccatura che inizia ad allargarsi nel cinema, tra i disfattisti che urlano alla vittoria mutilata e coloro che pur condannando l’inutile massacro, si schierano fermamente contro una possibile azione militare. La successiva analisi della filmografia fascista è semplicemente efficace, ci fa capire all’istante le intenzioni del regime, la storia non viene riscritta, viene piuttosto vista attraverso una vignetta, una lente particolare che il fascismo usa per evidenziare quello che è comodo. Nasce così il mito della guerra bianca, degli eroismi dei singoli, degli arditi e della guerra come paradigma dell’esistenza di un’intera nazione. I film tornano in armi, esaltando il passato recente tanto quanto quello antico. In questo capitolo vengono evidenziate le forzature del cinema del fascismo ponendo accento sulle omissioni che sono opportunamente inserite. È la celebrazione del soldato italiano: il cinema si prepara alla seconda mobilitazione militare, questa volta sotto l’ala del fascismo.

Gli ultimi due capitoli sono dedicati a qualcosa che un appassionato di cinema apprezza particolarmente che potremmo chiamare una dissezione anatomica dei film di guerra. Qui l’autore ci presenta gli elementi tipici di questo genere, e i lettori possono riconoscere un filo conduttore che parte da “La presa di Roma” e arriva fino alle opere a noi contemporanee. Vengono qui spiegati gli scaltri trucchi che i registi hanno adottato un numero tale di volte da renderli quasi scontati, come per esempio l’abitudine di far recitare gli attori che devono essere visti come buoni da un particolare lato dello schermo. In questo e molti altri modi i War movie riescono in entrambi i loro scopi che Alonge sottolinea. Il primo è quello di galvanizzare l’opinione pubblica, solitamente attraverso un protagonista eroico che aiutato dalle sue capacità se la cava in un buon numero di situazioni e ne esce vincitore. Il secondo fine, opposto e contrastante, è quello di mostrare la brutalità della guerra. Ovviamente questo secondo filone ha origine dopo la fine del Ventennio fascista. In questi film vediamo più spesso una collettività di protagonisti in trincea, e non manca l’ironia drammatica.

La conclusione di Alonge è semplice ma, arrivando al termine del volume, fanno riflettere opportunamente anche sul titolo stesso dell’opera. Il grande fiorire di produzioni sulla grande guerra ha generato più di un solo mito riguardante essa, qualcosa che giustamente definisce “Un ambigua leggenda” fatta di confusione. Sottolinea questo riportandoci più volte l’esempio del film “La guerra di Momi” in cui il figlio di un soldato sogna la guerra, immaginandola fatta di nuvole di gas, dirigibili e mitragliatrici per poi svegliarsi e capire che quello era solo un sogno e che il padre, ufficiale di cavalleria, è appena stato decorato. Il film citato comunica alla perfezione l’ambivalenza del cinema italiano sulla grande guerra, capace di mostrare alla perfezione la realtà del conflitto ma che spesso, per ragioni ideologiche o politiche, ha preferito pendere verso gli eccessi da entrambe le parti, come sottolinea l’autore citando la reazione contraria dello stesso Emilio Lussu, dopo la visione del film Uomini contro ispirato al suo libro.

In conclusione, il volume ha un numero di pagine contenuto ma è denso di informazioni. La bibliografia è notevolmente estesa, e contiene grandi nomi del settore anche esteri, per questo motivo nel volume è inserita solamente una “bibliografia essenziale”. Questa bibliografia inizia con una premessa che ci spiega quanto vasta sia la produzione sull’argomento e ci fa apprezzare forse maggiormente l’opera di sintesi operata nel volume e il lavoro complesso che viene spiegato nella prefazione.  Le tesi dell’autore sono espresse chiaramente e articolate nei vari capitoli che presentano una struttura a grandezza discendente, laddove il primo capitolo è densissimo di contenuti, va via via semplificandosi, lasciando al lettore lo spazio con cui, una volta riflettuto sul parere autorevole dell’autore e dei colleghi citati, possa formulare le sue riflessioni sull’argomento.

Victor Piacentini