Massimo Baioni, Vedere per credere. Il racconto museale dell’Italia unita, Viella, Roma, 2020

Il libro scritto da Massimo Baioni si inserisce all’interno del suo campo di ricerca che riguarda l’uso pubblico della storia e la politica della memoria in età contemporanea, con particolare riferimento allo spazio urbano. L’opera nasce come rielaborazione di un volume precedente, pubblicato nel 1994, in cui l’Autore ricostruiva la storia dei musei del Risorgimento italiano fino alla Prima guerra mondiale. Questo contributo presenta due novità: da un lato amplia l’arco cronologico studiato, arrivando fino al periodo repubblicano, dall’altro costituisce un aggiornamento storiografico e museologico, attraverso l’utilizzo di una pluralità di fonti. Sono stati utilizzati non solo cataloghi museali, ma anche e soprattutto bibliografia italiana e straniera (in particolare francese) e fonti d’archivio (discorsi, lettere, verbali).

L’Autore considera il museo storico come uno dei luoghi dell’arredo urbano che, al pari dell’odonomastica cittadina, diventa il centro di incontro/scontro politico, ideologico, storico. In particolare, egli si sofferma sui momenti più qualificanti e controversi della storia nazionale: il Risorgimento, la Grande guerra, il Fascismo, la Resistenza. L’ambito cronologico analizzato copre circa ottant’anni: dagli anni Ottanta del XIX secolo agli anni Sessanta del XX. In questo modo, il libro consente un doppio itinerario: da un lato illustra la museografia italiana e dall’altro consente, attraverso di essa, una storia sui generis dell’Italia contemporanea in grado di leggere sia la trama sia soprattutto l’ordito della ricostruzione del passato e dell’uso pubblico della sua memoria.

Nel secondo Ottocento, quando l’Italia è uno Stato unitario da circa un ventennio, il Risorgimento entra nel dibattito pubblico come elemento di coesione nazionale, restando tale per oltre un secolo. Il neonato Stato italiano è ancora fragile e caratterizzato da una serie di “questioni” (si pensi, per esempio, alla questione meridionale e alla questione romana) che sembrano metterne in discussione l’esistenza. Pertanto, nel tentativo di arginare queste spinte centrifughe, lo Stato implementa, pur fra incertezze e ritardi, una serie di iniziative che pongono il Risorgimento al centro del discorso pubblico. Inoltre, l’ascesa al governo della Sinistra storica (1876) favorisce questa operazione svolta da esponenti garibaldini e mazziniani.

Il terminus a quo del libro è il 1884, anno dell’inaugurazione del Padiglione torinese nell’ambito dell’Esposizione Generale Italiana. Il Risorgimento viene presentano come punto di arrivo e di partenza allo stesso tempo, per un’Italia in trasformazione sociale, economica, industriale. Promotore dell’esposizione torinese è il crispino Tommaso Villa che imprime un carattere “nazionale” all’allestimento ovvero non soltanto dinastico-piemontese. Il suo grande successo spinge molti comuni a realizzare collezioni permanenti nel proprio territorio. Queste iniziative locali, che riguardarono prevalentemente il centro-nord, furono quasi integralmente gestite dai poteri locali, senza input del governo. All’inizio del XX secolo, sono circa una ventina i musei del Risorgimento in Italia, quasi tutti in area padana; nel resto del paese, bisognerà attendere gli anni Dieci e Venti del XX secolo affinché i progetti, pur presenti, si possano manifestare pienamente. Tuttavia anche al Nord vi sono differenze; per esempio, nelle città amministrate dalla Sinistra (Mantova, Brescia, Modena, Bologna) gli allestimenti museali risentono dell’impronta antimonarchia e anticlericale. Inoltre, differenze riguardano anche la periodizzazione. Infatti, raccogliendo i cimeli più disparati della storia patria ci si chiedeva anche quando avesse avuto inizio il Risorgimento.

Dopo i primi anni di impegno collettivo, diventa centrale la figura del direttore; una figura che l’Autore analizza con dovizia di particolari, indugiando sia sulla prima generazione (Raffaele Belluzzi a Bologna, Luigi Picaglia a Modena, Luigi Bailo a Treviso) sia sulla seconda (Ludovico Corio a Milano). Un momento di passaggio importante fra la prima e la seconda generazione, individuato nel volume, è il Primo congresso di storia del Risorgimento (Milano, 1906) in cui si scontrano due approcci museografici differenti: quello positivista che considera il museo come luogo di studio e di ricerca che deve parlare alla mente del visitatore; quello romantico che considera il museo come luogo della memoria, basato sul cimelio che deve parlare al cuore, emozionando il visitatore. L’esito sarà un compromesso fra le due istanze, che tuttavia avrà scarsa eco negli allestimenti museali.

Il 1911 coincide col cinquantenario dell’Unità e con la guerra di Libia; in questo frangente l’Autore mostra l’accostamento della tradizione risorgimentale con la propaganda coloniale. Nei musei di questi anni, dunque, il sentimento patriottico si espande oltre il Risorgimento per includere anche la volontà coloniale la quale, si nutre altresì di considerazioni scientifiche di natura etno-antropologica. In realtà, questi aspetti emersero già con le esplorazioni italiane di fine Ottocento in Eritrea. I musei del Risorgimento ospitano le collezioni coloniali le quali, però, tendono ad esaltare la funzione civilizzatrice della madrepatria, piuttosto che a mostrare la civiltà africana.

Subito dopo la Grande guerra, i musei dei paesi belligeranti istituiscono musei di guerra in cui espongono i cimeli sia dei propri combattenti sia le armi sottratte al nemico. In Italia, invece, questa funzione è assolta dai musei del Risorgimento che, dunque, accolgono nelle loro sale collezioni della Grande guerra. Ciò avviene per diversi motivi: mancanza di fondi, solido radicamento di questa tipologia di museo storico, lettura del conflitto come “quarta” guerra d’indipendenza, monumentalizzazione della memoria bellica (anziché musealizzazione) attraverso monumenti ai caduti (diramazione locale del Milite ignoto nella Capitale), cimiteri di guerra, viali della rimembranza. Inoltre, questi anni vedono la nascita di due musei del Risorgimento al Nord (Genova 1915 e Bergamo 1917) e soprattutto uno al Sud (Palermo 1918) che colma così una lacuna evidente.

Con l’avvento del fascismo, i musei furono scarsamente coinvolti nell’opera di fascistizzazione; unica eccezione fu l’installazione di musei di guerra a Rovereto, Gorizia, Milano e Genova. Baioni dedica particolare attenzione alle terre di confine ovvero Trento e Trieste (per quest’ultima incidono anche le radici familiari dell’Autore). Più che accumunarle, egli considera le specificità di queste città e la nascita dei loro musei: Trieste (1925) e Gorizia (1921). Per quanto riguarda Trento, il volume prende in esame il ruolo di due figure femminili: Ernesta Bittani (vedova di Cesare Battisti) e Bice Rizzi (una delle poche direttrici donna). La situazione muta parzialmente a partire dal 1932, data carica di significati: cinquantenario della morte di Garibaldi e decennale della marcia su Roma. Da un lato, Antonio Monti cura due allestimenti presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma (dedicate ai due anniversari) che tentano di proporre un nuovo paradigma museografico: al centro non c’è più il singolo eroe e la battaglia risorgimentale, bensì il popolo, la massa. Tuttavia la sua proposta sarà scarsamente seguita negli altri musei (con l’eccezione di Gorizia). Dall’altro lato, negli anni 1933-35 il regime interviene direttamente nella politica culturale, attuando un vasto piano di riorganizzazione delle istituzioni storiche. In ogni caso, i musei pienamente fascisti saranno solo quelli centrali di Torino e Roma, mentre negli altri permangono le rappresentazioni localistiche della patria. 

Subito dopo la Liberazione, la pratica espositiva viene riconosciuta come uno strumento importantissimo per contribuire a liberare l’Italia dai residui ideologici lasciati dal precedente regime. In questo caso, però, lo strumento utilizzato sono le mostre piuttosto che i musei. Inoltre, l’iniziativa è quasi esclusivamente privata, animata da famiglie e comunità locali, le quali intendono fissare il ricordo della Resistenza e dei sacrifici di sangue patiti.

In una prima fase, la Resistenza fatica ad entrare nel museo, essendo concepita come un “secondo” Risorgimento. Soltanto negli anni Sessanta, in seguito alle trasformazioni sociali ed economiche che il Paese vive, il Risorgimento cede il passo alla Resistenza. Tuttavia i musei della Resistenza non cancellano del tutto la memoria del Risorgimento e della Grande guerra: il primo conoscerà una rigenerazione negli anni Ottanta, mentre la seconda in occasione del centenario (2015-18).

Un momento importante è altresì il centenario dell’Unità (1961) che si celebra a Torino con tre mostre; l’Autore dedica particolare attenzione all’allestimento di Palazzo Carignano in cui si scontrano, nuovamente, due approcci museografici differenti: cuore e mente, emozione e riflessione. Infine, l’Autore getta uno sguardo sulle tendenze museografiche degli ultimi anni, sia quelle delle Guerra fredda sia quelle più attuali che si legano alla Public history, nonché a progetti come la realizzazione di un museo storico a Predappio.

Marco Casanova