Cronaca della xxi Assemblea Sisem (8-10 febbraio 2024)

Tra l’8 e il 10 febbraio 2024 si è tenuta a Milano la ventunesima assemblea annuale della Società Italiana per lo Studio dell’Età Moderna (sisem), che ha visto lo scadere del mandato di presidente di Antonino De Francesco e l’elezione del suo successore, Giorgio Caravale.   

Organizzatori dell’evento sono stati il presidente uscente e Cinzia Cremonini, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; è proprio tra i due atenei che si è tenuta l’assemblea, una prova di collaborazione interuniversitaria assai riuscita, che ha visto lavorare fianco a fianco studenti e ricercatori delle due università. Le attività si sono divise tra le sedi di entrambi gli atenei: la parte scientifica nella suggestiva aula magna dell’Università Cattolica, i lavori della società nella sede di via Festa del Perdono. 

L’attività scientifica principale è stata la settima edizione di Attraverso la storia, un seminario di giovani studiose e studiosi di storia dell’età moderna, diviso in cinque panel tematici, composti da tre relazioni ciascuno e seguiti da una discussione animata da un/una discussant esperti dell’argomento.   

Schiavi nell’età moderna: commercio, vita sociale e nuove prospettive di ricerche

Il primo panel è stato dedicato agli schiavi nell’età moderna. Giuseppe Patisso vi ha presentato una ricerca – dal titolo Catene adriatiche, una tratta della schiavitù tra xvii e xviii sec. Rotte, mercanti e uomini fra le due sponde – inerente alla tratta degli schiavi nella regione pugliese e basata sullo spoglio archivistico dei maggiori centri urbani e commerciali della regione. I risultati sono stati consistenti avendo rilevato a oggi un totale di 1352 schiavi nell’arco cronologico tra il 1531 e il 1808.   

Dopo un’iniziale catalogazione delle fonti utilizzate, tra le quali spiccano numericamente le emptio-mancipio e i battesimi, la relazione ha proseguito con un’analisi dei dati raccolti in base a diversi parametri, tra cui sesso, colore della pelle, mercato di acquisto e provenienza dei “mercanti”. Dall’analisi dei dati è emerso come, da una situazione iniziale in cui la provenienza degli schiavi era prevalente localizzata nelle isole greche, dopo la guerra di Candia nel 1645 si sia registrato un mutamento, ulteriormente approfonditosi nei decenni successivi, che ha favorito la nascita di nuove rotte, dai porti balcanici ai centri pugliesi.  

In seguito, egli ha osservato le oscillazioni del prezzo degli schiavi che, diminuito in corrispondenza della massima espansione della tratta per via delle disponibilità di mercato, ha subito un improvviso innalzamento nel 1691, dovuto a un’epidemia di peste scoppiata attorno a Senj, nell’odierna Croazia.  

Si è infine concentrato sulle vicende di due singoli individui, il liberto Giuseppe Domenico Molner di Lecce, e il mercante Padron Geronimo Palombaro da Messina, in modo da dare sostanza alle asettiche cifre fornite.  

Successivamente Beatrice Schivo ha presentato una ricerca intitolata Oltre la libertà: commercio e mediazione tra le due sponde del Mediterraneo e volta a ricostruire le relazioni sociali e commerciali intessute nel regno di Sardegna di primo Seicento nel contesto della tratta degli schiavi. Per farlo ha adoperato la tecnica, già sperimentata in sociologia, dell’analisi delle reti sociali (sna), che funziona inserendo in due tabelle i “nodi” di un sistema, ovvero gli attori (mercanti, schiavi e liberti), e le “curve”, cioè le relazioni che li legano (azioni comandate dal padrone, liberazioni, commerci e legami parentali).   

Anche in questo caso dopo aver delineato i termini della questione la relatrice ha approfondito il caso di un liberto proveniente da Sfax di nome Sallem, ricostruendo la rete di relazioni da lui tessute nell’arco di una vita. Nella prima fase della sua carriera lo ritroviamo occupato in diversi traffici, il più rilevante dei quali è la liberazione di un maiorchino per conto di un altro mercante suo connazionale di nome Miguel Vidal.    

Dopo un periodo di silenzio, una fonte ecclesiastica di Cagliari del 1609 ci restituisce la notizia della morte del figlio; tramite questo documento possiamo ricostruire la vita privata del liberto con la sposa Fatima, schiava del già citato Miguel Vidal, che probabilmente intratteneva con Sallem un rapporto di tipo commerciale. Nello stesso documento Sallem è definito “comprador” del marchese a cui apparteneva prima della liberazione. È quindi verosimile che quest’ultimo si sia avvalso di Sallem come intermediario e negoziatore. La vita del liberto appare quindi caratterizzata da un’ampia mobilità sociale e spaziale, contestando la convinzione comune che la schiavitù equivalesse ad uno stato di immobilità.    

In conclusione, Schivo ha proposto una riflessione sull’utilità del sistema di visualizzazione sna, che a suo dire ha il vantaggio di permettere una rappresentazione panoramica dei fatti, organizzando in un unico schema intuitivo, l’estensione delle relazioni presenti in un determinato contesto sociale. 

L’ultimo intervento sul tema è stato quello di Achille Marotta che con la sua ricerca, I venditori ambulanti musulmani a Genova (secc. xvii e xviii), ha cercato di dare spessore al fenomeno della schiavitù mediterranea esaminando la questione degli schiavi mercanti, tramite l’analisi di fonti principalmente giuridiche e un lavoro comparativo con la realtà marocchina.  

La categoria degli schiavi mercanti appare caratterizzata da un’irregolarità di tipo sia linguistico sia lavorativo. Dal punto di vista del lavoro, molte fonti mostrano come costoro si muovessero al di fuori della norma. Le testimonianze sono prevalentemente rappresentate da suppliche dei detentori di monopoli, degli esattori delle gabelle, dei membri di corporazioni danneggiate dalla mercatura degli schiavi, o da relazioni di birri e da ordinanze pubbliche. In generale la documentazione insiste sulla mancanza di azione indipendente degli schiavi-mercanti, sull’illiceità del commercio, spesso operato con la violenza, e sul loro status di “stranieri”, che si approfittano dell’esenzione dai doveri della cittadinanza come il pagamento delle gabelle. Nonostante le numerose testimonianze, non dobbiamo però dimenticare l’interesse dei loro produttori a intervenire nella realtà sociale del tempo, che può renderle tendenziose e quindi non totalmente affidabili per descrivere il contesto che le ha prodotte. 

Questa visione di parte è stata integrata da altre fonti che mostrano la prospettiva degli schiavi, quali le loro stesse suppliche, o le risposte date alle accuse mosse loro dai concorrenti. Da queste emergono nuovi elementi: viene contestata l’incapacità degli schiavi di avere autonomia d’azione; appare infatti come i padroni traggano vantaggio delle fortune dello schiavo alzandone il riscatto o appropriandosi della sua eredità, e come, secondo gli schiavi, siano in realtà i birri con la loro prepotenza a violare leggi e consuetudini. Infine, risulta come la maggiore difficoltà della condizione di uno schiavo sia soprattutto inerente alla sua impossibilità di intessere relazioni sociali, fondamentali nella società di ancien régime Come risposta all’isolamento indotto dalla condizione schiavile risultano rilevanti le relazioni intessute con la propria comunità religiosa, che vengono cementate dal finanziamento alle moschee, ai cimiteri islamici o facendo beneficenza e a volte comprando la libertà agli schiavi “miserabili”, ovvero schiavi vagabondi che vivevano in condizioni di indigenza.  

Oltre le Colonne d’Ercole e la Sublime Porta: studi in corso sull’età di Cosimo iii de’ Medici

Il secondo panel della giornata si è aperto con la presentazione di Matteo Calcagni “Gettarsi nelle braccia dei portoghesi con esporsi a cimento”: le ambizioni commerciali globali nell’età di Cosimo iii de’ Medici (1670-1723), che ha, in primo luogo, fornito un contesto alle ricerche: queste si sono concentrate sull’epoca di Cosimo iii de’ Medici, un periodo che ha avuto poca fortuna dal punto di vista storiografico in quanto, essendo caratterizzato da una generale stabilità, è stato identificato come definito da stagnazione politica.  Una tendenza che si sarebbe invertita solamente nel 1990 grazie agli studi di Jean-Claude Waquet, il quale ha dato avvio a una rivalutazione del periodo che dura tutt’oggi.   

Cosimo iii durante il suo regno ha agito, tramite riforme amministrative ed economiche, in modo da rimediare alle disfunzioni che lo stato mediceo aveva accumulato dal granducato di Cosimo i. In particolare, Calcagni si è concentrato sul progetto del governo Toscano di inserirsi in un affare per la creazione di una compagnia commerciale nelle Indie portoghesi, con l’obiettivo di raccogliere capitali da investire in attività commerciali sotto la protezione medicea, per consentire una ripresa del comparto manifatturiero toscano (in crisi per via dei prodotti inglesi e olandesi), tramite lo smercio nei canali protetti portoghesi.    

Nonostante le intenzioni di Cosimo iii, questo progetto venne criticato dalle élite commerciali del Granducato. L’iniziativa sarebbe poi definitivamente naufragata in seguito alle valutazioni negative espresse dai banchieri Francesco Tempi e Gioacchino Guasconi, patriarca di un’importante famiglia commerciale, con membri in ogni piazza d’Europa, che definirono il piano un inutile spreco di risorse. 

Tuttavia, nonostante il fallimento del progetto, la vicenda mostra il dinamismo del patriziato mercantile fiorentino, che risulta in contrasto con la chiusura statica attribuitagli dalle interpretazioni storiografiche del passato, che avevano addossato alle élite mercantili toscane la responsabilità della stagnazione seicentesca a causa di una generale tendenza all’abbandono della pratica commerciale per l’appoderamento. 

A supporto di questa tesi è stata, infine, presentata un’analisi del numero e della distribuzione geografica delle accomandite fiorentine, che mostrano un exploit spaziale e quantitativo proprio durante il granducato di Cosimo iii, con contratti firmati a Londra, Amsterdam, Russia e Levante, negli ambiti tradizionali dell’economia fiorentina (tessile, attività bancarie e commerciali). 

La parola è poi passata ad Emanuele Giusti con un intervento su “Cosimo iii e l’India. Interessi politici, etnografici e naturalistici nelle corrispondenze tra Firenze e Goa” che ha concentrato la sua attenzione sugli scambi epistolari tra Cosimo iii e diversi destinatari nelle Indie portoghesi, evidenziando gli interessi del granduca in ambito politico-etnografico e naturalistico.  

Cosimo iii, durante la sua giovinezza, ha intrapreso diversi viaggi in Europa assemblando 82 carte e vedute di città, in una collezione oggi nota come “carte di castello”, da cui traspare una visione del mondo filtrata dai resoconti mercantili  olandesi e inglesi, aventi come centro l’attività cartografica di Amsterdam; oltre a questa, però, gli scambi epistolari con Goa aprono una nuova prospettiva, illuminando una conoscenza del mondo asiatico frutto dell’intermediazione portoghese e missionaria. 

Una rete di comunicazione in cui è possibile individuare tre attori principali: i missionari al servizio del granduca, lo stesso Cosimo, che garantiva il patrocinio del granducato, e il segretario granducale Apollonio Bassetti, a cui dobbiamo l’ordine in cui le filze delle epistole sono conservate.   

Le lettere suggeriscono come Goa fosse un punto di raccolta per le informazioni provenienti dalle Indie portoghesi, che fornivano sia un quadro informativo sullo stato delle operazioni missionarie in estremo Oriente, sia un’analisi lucida dello scenario politico, rilevante come manifestazione degli interessi anglo-olandesi nell’area.  Tali missive sono interessanti per comprendere gli interessi che muovevano la corte di Cosimo iii e da questo punto di vista risultano rilevanti anche le lettere di carattere naturalistico-botanico. L’interesse di queste carte è dovuto al fatto che il granducato era competente in materia, fatto che ha reso lo scambio di informazioni proficuo per entrambe le parti. Dalle lettere emerge, infatti, il livello della cultura naturalistica medicea che, superando il semplice collezionismo esotico, si attesta su forme di conservazione più sistematiche, come confermato dagli scambi epistolari con padre Tedeschi.  

In conclusione, si può osservare come l’attività epistolare tra Goa e la corte medicea andasse al di là del semplice “orientalismo”, riflettendo invece la necessità di ottenere e far circolare informazioni capaci di influire culturalmente sulle realtà politiche globali. 

La libertà di stampa nel decennio rivoluzionario: tra Rivoluzione e Controrivoluzione

Il terzo panel è stato l’unico a trattare uno degli argomenti classici della modernistica: la Rivoluzione francese. Al centro della discussione è stato il problema del rapporto tra Rivoluzione e libertà di stampa, un binomio spesso dato per scontato, ma che, nel suo rapporto con la controrivoluzione, sollevò più di un interrogativo sia in Francia che altrove. 

Il 7 frimaio anno iii (27 novembre 1794) tornò all’attenzione dell’opinione pubblica un opuscolo che aveva già causato scalpore nel lontano 1791: in Quando la libertà di stampa si fece controrivoluzione: lo strano caso del Catechisme des Colonies (1791-1794 e ritorno), Amanda Maffei ripercorre le vicende editoriali di un testo di matrice controrivoluzionaria, che si ritrovò a essere edito dall’Imprimerie nationale, apparentemente a nome della Convenzione.  

Il Catechisme des Colonies è un volumetto del 1791, espressione delle istanze controrivoluzionarie e indipendentiste delle colonie di quel periodo. Il testo venne riproposto nel 1794 con un nuovo nome (Vues générales sur l’importance du commerce des Colonies) e mosso dalle nuove istanze della controrivoluzione coloniale. Il convenzionale Benoît Gouly, autore del testo, ne propose una versione modificata e ampliata: scomparso era l’indipendentismo, che cedeva il passo a una forma di imperialismo che voleva la sospensione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino al di fuori di Francia, onde evitare il collasso del sistema schiavile – e dei vantaggi economici del sistema coloniale.   

Il testo suscitò un vivo dibattito in seno alla Convenzione in merito all’opportunità di reintrodurre sistemi censori: Gouly aveva stampato il testo presso la stamperia ufficiale e a nome della Convenzione, dandogli autorevolezza e facendo sembrare l’assemblea promotrice dell’iniziativa. Le proposte dell’assemblea sulla questione andarono da una semplice presa di distanze all’idea di istituire una figura di censore nella Convenzione. 

La questione si concluse con la sola sconfessione delle parole del convenzionale: contro più drastiche misure proposte si sollevarono proteste che chiamavano in campo l’importanza della libertà di stampa, per richiamarsi ai valori dell’Ottantanove e prendere le distanze dalle pratiche del Terrore. Se il caso Gouly si era chiuso, ancora aperto era il problema della libertà di stampa: il fragile equilibrio politico termidoriano e del direttorio sembrava impreparato di fronte all’uso dello strumento rivoluzionario per eccellenza da parte di chi la Rivoluzione sperava di spegnere.  

L’evoluzione del problema era al centro della comunicazione di Giacomo Carmagnini dedicata a Un principio conteso: teoria e pratica della libertà di stampa nella Francia direttoriale (1796-1797).  

L’assenza di un qualsiasi riferimento alla libertà di stampa nella Dichiarazione che apriva la costituzione dell’anno II testimonia le contraddizioni della Francia direttoriale: sul finire del 1796 l’esecutivo metteva in guardia i consigli legislativi, denunciando la guerra mossa dai nemici della Rivoluzione. Gli opposti estremismi, entrambi armati di periodici, muovevano contro il benessere della Repubblica; serviva, dunque, affrontare il problema della libertà di stampa e ci si chiedeva se fosse possibile limitarla.   

Ci furono varie iniziative legislative, risoltesi con nulla di fatto: la partita si giocava in equilibrio tra l’inaccettabile censura preventiva e la responsabilità individuale per i propri scritti. Fattasi primavera, i progetti erano naufragati: la controrivoluzione continuava a stampare con successo, come dimostrato dal successo elettorale del côté realista. L’ultima carta da giocare da parte del Direttorio fu il colpo di stato del 18 fruttidoro.   

Carmagnini propone, per comprendere la più ampia strategia del Direttorio, di considerare un periodico, Le Conservateur, fondato su impulso di Talleyrand pochi giorni prima del colpo di mano. Lo scopo era farlo diventare l’arma dell’esecutivo per combattere la stampa realista, facendosi portavoce della contro-narrazione. All’indomani del colpo di stato, sul periodico se ne fecero le lodi, annoverandolo tra le grandi journées rivoluzionarie.   

Passato l’entusiasmo, si dovette presto correggere il tiro: l’esecutivo non poteva accettare che si parlasse di rivoluzione, una rivoluzione non c’era stata; il Direttorio aveva mantenuto l’ordine. Il discorso venne inserito sulla scia della questione della libertà di stampa: il fallimento nei tentativi di limitare la stampa controrivoluzionario non aveva lasciato scelta a un governo che tentava di restituire stabilità alla Repubblica.  

Per ultimo, Andrea Nossa ha affrontato la medesima questione in una diversa prospettiva: nel suo intervento, Censura e finzione: le strategie culturali controrivoluzionarie nel 1799, ha ricostruito le strategie messe in atto durante la restaurazione delle potenze austro-russe in Italia settentrionale, indaffarate a sopprimere le istanze repubblicane e rivoluzionarie venute a formarsi durante il triennio giacobino.    

In quella che era stata la Repubblica cisalpina le forze austriache, dopo aver ripreso il controllo delle terre, dovevano riprendere il controllo delle menti: prima tappa fondamentale fu la reintroduzione della censura, cui si aggiunsero dei roghi di libri in varie città, dove si invitava la cittadinanza a dare alle fiamme tutta la pubblicistica rivoluzionaria per ripulirsi materialmente e spiritualmente – tanto che l’iniziativa fu promossa da una pastorale dell’Arcivescovo di Milano. Non bastava imbrigliare le stampe, ma si voleva anche cancellare le tracce della democrazia.   

Difficilmente, però, si poteva sperare di riportare le lancette del tempo a prima della Rivoluzione: i cambiamenti erano stati troppo grandi e la stampa non poteva essere semplicemente ignorata. In quest’ottica si inseriscono delle pubblicazioni che, proprio con l’arma che aveva permesso alla Rivoluzione di smuovere l’opinione pubblica, avrebbero dovuto riportare all’ordine:  per illustrare l’errore della democrazia si pubblicarono testi con l’espediente di un autore che era stato rivoluzionario, prima di tornare sulla retta via. In questi scritti si distingueva tra rivoluzionari convinti, chi si era adattato per timore o convenienza e chi era stato ingannato dalle promesse della Rivoluzione. Questi ultimi potevano essere recuperate e ricondotti sulla retta via, mostrando l’errore delle loro azioni attraverso ragionamenti che riprendevano il linguaggio e gli strumenti della letteratura rivoluzionaria, con lo scopo di illustrarne le illusioni.   

Questo ambiguo rapporto con la stampa va a testimoniare l’impatto che questa aveva avuto: Rivoluzione e controrivoluzione dovettero fare i conti con questo processo di democratizzazione dell’informazione, divenuto talmente integrale per i cittadini da provocare non pochi problemi per entrambe le parti; era certo, però, quanto non fosse più trascurabile. 

“Indie del Mediterraneo”? Evoluzione storica e nuove ipotesi sulle missioni nelle Reggenze nordafricane dell’impero ottomano (secoli xvi-xvii)

La seconda giornata si è aperta con Silvia Notarfonso, che ha presentato la sua ricerca dedicata a La compagnia di Gesù e le missioni nel mondo ottomano. Il caso del Nordafrica e incentrata sull’operato dei gesuiti nelle terre dall’altra parte del Mediterraneo. Fin dalla fondazione dell’ordine, Ignazio da Loyola aveva giurato di diffondere il Verbo in Terrasanta, e di seguire la volontà del papa ovunque fosse stato loro ordinato di servire. Da questi propositi si evince la tendenza naturale che l’ordine aveva anche verso i possedimenti sotto controllo turco, tra cui il Nordafrica.  

L’attività dell’ordine in quelle terre fu caratterizzata da un andamento altalenante tra volontà evangelizzatrice e uno spirito di crociata atto a strappare quelle aree ai musulmani. Indicative di questa duplicità sono da una parte le lettere di Ignazio da Loyola, dall’altra l’attività in Nordafrica di Diego Laínez e Jeronimo Nadal, gesuiti che, nella prima metà del sedicesimo secolo, parteciparono alle campagne spagnole contro gli stati barbareschi come supporto spirituale alle truppe, accompagnando a esso l’opera di conversione. 

Se questi furono gli interessi iniziali della compagnia dopo la metà del ’500 cominciarono a concentrarsi sul riscatto di prigionieri catturati dalle spedizioni dei corsari barbareschi, senza tuttavia cessare del tutto le attività missionarie.   

Questo tema è stato approfondito attraverso le biografie di due protagonisti: quello di Giulio Mancinelli, gesuita che aveva servito l’ordine prima a Costantinopoli e poi in una missione in Nordafrica, riportando le sue esperienze in Del viaggio fatto ad Algeri nella Morea, e quello di Mariano Manieri, un contemporaneo di Mancinelli attivo tra Algeri e Tunisi.   

Antonino Campagna, il coordinatore del gruppo, è entrato nella praticità dell’argomento con la sua presentazione – “El ornato de los sacramentos”. Cura d’anime e controllo pastorale tra le missioni di redenzione e apostolato nel Nordafrica ottomano – indagando le modalità con cui i missionari operarono nel contesto nordafricano tra il xvi e il xvii secolo. Per comprendere gli approcci missionari sul campo egli ha esaminato alcuni trattati relativi alla gestione dell’attività di evangelizzazione e riscossione dei cristiani in stato di prigionia. Il primo, “De liberatione christianorum in servitute” di padre Giulio Mancinelli, è un manuale sulla riscossione dei “captivi”, nel quale è stato messo in evidenza il processo di analisi dell’ostaggio dal punto di vista fisico e morale, che andava poi a escludere gli elementi indesiderati dal sistema dei riscatti. Da tale esame emerge una visione del captivo non solo come anima da salvare, ma anche come partecipante a una società terrena. Il secondo è stato il “Tratado de redención de cautivos” di Jeronimo Gracián, un carmelitano che aveva avuto esperienza diretta del sistema, essendo stato egli stesso un captivo a Tunisi. Il trattato discute della salvaguardia delle anime degli ostaggi, che, in terra straniera, erano abbandonati dalle loro guide spirituali e costretti a conversioni di convenienza. In particolare, Gracián si è concentrato su un aspetto inusuale della questione, ovvero del ruolo delle donne apostate, che spesso venivano in aiuto delle attività confessionali dei preti.    

Graciàn si mosse in un ambiente romano strutturato attorno ai cardini di tre pontificati, quello di Gregorio xiii, di Clemente viii e di Paolo v, personalità accomunate dal loro interesse missionario, il quale maturò fino a concretizzarsi nel 1622 nella creazione della congregazione De Propaganda Fide. Attorno ai pontefici gravitavano personalità legate al mondo dell’evangelizzazione, che mantennero cariche durante papi diversi; un esempio è quello del cardinale Santori che, oltre ai ruoli ricoperti per Clemente viii, operò sotto Gregorio xiii come collegamento tra il pontefice e l’Opera pia del Gonfalone, congregazione incaricata del riscatto degli schiavi dello Stato della Chiesa. 

In chiusura Campagna ha poi analizzato gli aspetti pratici dell’operato missionario: prima tramite le componenti dell’inventario degli evangelizzatori e, successivamente, osservando come le sfide dell’evangelizzazione fossero complicate dalla competizione con altre organizzazioni missionarie che, concorrendo alle operazioni di riscatto, danneggiavano gli agenti italiani alzando i prezzi o spargendo maldicenze. Altre problematiche sono sorte nelle relazioni con gli agenti economici, come nel caso dei contratti stipulati con mercanti marsigliesi, che si rifiutarono di consegnare il denaro ai missionari in Nordafrica ai termini stabiliti, costringendoli a una ritrattazione a tassi d’interesse più alti. 

Mario Sanseverino, nella sua comunicazione dedicata a Tra l’arene sterili di Barbaria”. Il processo di localizzazione delle missioni apostoliche nel Nordafrica ottomano, ha invece esaminato la formazione di una gerarchia ecclesiastica nel contesto delle comunità cristiane di captivi negli stati barbareschi, dividendola in tre periodi: schiavile, diocesana e vicariale. 

La fase schiavile (1621-1637) è così definita in quanto le operazioni sul campo furono gestite prevalentemente da sacerdoti presenti sul territorio in stato di schiavitù, modalità che rendeva complesso un controllo centralizzato sull’operato degli agenti. L’obbiettivo principale in questa fase, come emerge dalle missioni di Diego di Napoli a Tunisi e Marco di Scalve ad Algeri era liberazione degli ostaggi e il supporto religioso, per evitare che i fedeli cadessero nel peccato o si convertissero all’islam per convenienza.    

Nella seconda fase, detta diocesana (1637-1650), si è cercato di riorganizzare l’operato delle missioni, tramite la creazione dell’arcidiocesi di Cartagine. L’attività missionaria fu portata avanti, ma questa volta si concentrò soprattutto negli hub commerciali di Tabarka e Bastione di Francia, con missioni affidate a due compagnie differenti, per evitare conflitti; tuttavia, nonostante questa precauzione, sorsero dei contrasti a livello cardinalizio, che immobilizzarono l’agenzia dell’arcidiocesi di Cartagine.   

Questa instabilità amministrativa rese il sistema insostenibile e si cercò di aggirare il problema. L’arcivescovo di Cartagine durante il suo mandato aveva nominato dei vicari con il compito di agire sul territorio, ma, poiché la sua autorità non era riconosciuta, i vicari chiesero e ottennero da Roma il titolo di vicari apostolici. Questo processo rientra nella periodizzazione della terza fase, detta vicariale (1650-1838).   

In quest’ultimo periodo risulta rilevante l’intervento dei vicari francesi, soprattutto appartenenti all’ordine dei lazzaristi, privilegiati in quanto possedevano una serie di vantaggi di tipo politico (disponibilità economica e tutela giuridica), ecclesiastico (in quanto godevano del favore di prelati eminenti e avevano un legame con le congregazioni romane fin dalla fondazione), ma soprattutto metodologico (in quanto prediligevano un modello d’azione basato sulla mansuetudine, ovvero sulla conciliazione, ed erano in grado di canalizzare le devozioni private in finanziamenti costanti) sulle altre organizzazioni missionarie.   

Sanseverino ha concluso con una riflessione sull’usuale metodo di categorizzazione delle missioni, di solito strutturato sui tre cardini delle missioni in Europa orientale, in America e in Asia, ipotizzando l’aggiunta di un quarto campo di ricerca: quello delle missioni evangeliche mediterranee.    

Commettere, combattere, comprendere la frode. Repressione e legittimazione dell’illecito nell’Italia settentrionale (secoli xvii-xviii)

L’ultimo panel prendeva in esame il problema cercando di andare oltre il piano giuridico e scegliendo una prospettiva molto più ampia: la frode, concepita come atto di dissenso politico, come alternativa plausibile alla norma, fonte di molte questioni. La scelta della periodizzazione è chiara e consapevole: la rivoluzione dei consumi (secoli xvii-xviii). Qui l’Antico Regime conosce dei mutamenti difficilmente trascurabili e l’argomento dovrebbe consentire di osservarne alcuni: non solo nel commettere e combattere la frode ma, appunto, nel comprenderla.  

La prima tappa nella progressione geografica e cronologica ha portato a Genova, con la relazione di Sofia Gullino, intitolata Sorvegliare e (non) punire: la dialettica fra il Magistrato dell’Abbondanza di Genova e le corporazioni alimentari nella prima metà del xvii secolo. La filiera del pane nella Genova cinque-secentesca è un utile caso di studio, perché si ritrova al centro di riassestamenti politico-sociali nel rapporto tra autorità statale e corpi sociali (ben sei delle arti cittadine hanno un ruolo nella produzione del pane).    

Alla fine del Cinquecento la filiera del pane assiste a due riforme fondamentali: l’istituzione delle stapole, soli luoghi in cui era ammessa la vendita del pane, sotto il controllo dell’autorità cittadina, e l’imposizione ai molinari di comprare i cereali esclusivamente dai magistrati preposti all’approvvigionamento. 

Lo studio è stato condotto sui registri del Magistrato dell’Abbondanza, che restituiscono un’ampia casistica di frodi – con un notevole aumento nella vendita di pane proibito o di cattiva qualità – cui sarebbero dovute corrispondere dure pene; quello che risulta dalla consultazione dei registri è che le pene comminate furono assai più lievi di quelle previste, limitandosi spesso e volentieri a una multa e alla vendita del pane confiscato. Dalle suppliche emerge un filo rosso: spesso la frode è giustificata, da parte dei fornai, come unica alternativa possibile alla rovina.  

Difficilmente, quindi, si può pensare alla frode come semplice atto individuale di trasgressione: piuttosto, andrebbe inserito in un’ottica di conflitto tra il potere statale della Repubblica, che cerca di affermare il suo controllo sulle parti sociali, e la risposta di queste ultime, nel delicato gioco di poteri, privilegi, diritti e doveri di una società di Antico Regime.   

Questa dialettica tra autorità e società è stata anche al centro della relazione successiva: “Tali proclami giustamente non furono osservati”: tentativo di controllo e frodi generalizzate nelle risaie dello Stato di Milano (1575-1720) di Gilles Narcy. Introdotta a fine Quattrocento nello Stato di Milano, alla fine del secolo successivo la risicoltura sollevava già non pochi problemi relativi ai conflitti sull’utilizzo delle acque, allo spazio sottratto alle colture tradizionali, al pericolo per la salute pubblica, secondo le concezioni aeristico/miasmatiche dell’epoca. 

In materia di risaie nel milanese si legiferò moltissimo, sollecitando un’immediata risposta di pratiche illecite: alle norme stringenti corrispose fin dal principio la possibilità di ottenere esenzioni. Tra i sistemi migliori di ottenerle ci fu proprio la frode: campi già allagati difficilmente sono restituibili a condizioni ottimali per colture asciutte e l’aver commesso una frode non è considerata ragione sufficiente per proibire la concessione di una licenza dal Magistrato straordinario; la frode si configura, infatti, come uno dei passaggi in un più lungo processo di negoziazione che portava alla concessione della licenza. 

Non mancarono tentativi da parte dell’autorità di contrastare gli abusi, ma in un’ottica di Antico Regime la legge non era concepita come sola imposizione dall’alto al basso che può essere accolta come rifiutata, ma come processo di negoziazione tra parti sociali, di coesione e capacità di azione delle autorità nel confronto con i corpi sociali, operazione in cui ha rilievo il gioco di suppliche ed esenzioni. Proprio queste dinamiche permettono di comprendere l’evoluzione dell’approccio statale in materia, che conosce aperture e chiusure nel corso del Seicento.   

Illuminante è l’istanza giusnaturalista portata avanti dal giurista Luigi Caroelli, che sostiene che è perfettamente legittimo contravvenire a leggi lesive del diritto naturale. La frode diventa così criterio di validità della legge stessa, ribaltando il rapporto tra vincolo legale e stato di sudditanza. 

Proprio dell’ambito giuridico si è occupata la relazione di Francesco Zambonin: La frode e il falso nella Repubblica di Venezia tra xvii e xviii secolo. Distaccandosi dalla fenomenologia della frode presentata dai colleghi, Zambonin ha esaminato come l’apparato giuridico della Serenissima cambi il suo modo di processare la frode e come questo sia indicativo di un mutamento nella sua concezione nella società veneziana. 

Una piazza come Venezia è un ambiente ideale per la proliferazione di vari tipi di attività fraudolenta: così, l’organo preposto a contrastarla, l’Avogaria di Comun, passò dall’occuparsi prevalentemente di falsificazioni testamentarie a un’ampia gamma di illeciti. Di particolare interesse, proprio perché connessi alla natura multiculturale di Venezia, sono l’affinity fraud e i raggiri derivanti dall’incomprensione linguistica.  

Lo strumento giuridico utilizzato dall’Avogaria di Comun era il processo misto: un processo penale per quanto riguarda l’ordine e civile per quanto riguarda il merito, in quanto il giudice si limitava a stabilire l’autenticità di un documento, senza giudicare il responsabile. Gli strumenti argomentativi più praticati facevano ricorso a fattori quali l’errore, l’incomprensione, l’incapacità del defraudato; lo scopo dei processi è quello di mantenere la reputazione della piazza e di difendere gli interessi dei consumatori.    

Con la metà del xviii secolo si sarebbe fatto sempre meno ricorso all’Avogaria di Comun, preferendo il Tribunale superiore del Consiglio dei Dieci, caratterizzato da processi criminali delegati. Questo è indicativo di un processo di distanziamento tra l’ambito del falso e di quello della frode: in un’ottica di profitto, l’inganno volto all’arricchimento diventava giustificabile. A difendere questo principio era l’idea che il non farsi ingannare fosse compito di chiunque contraesse un accordo: si individuava la colpa nell’improvvidenza della parte lesa e non in chi cercava di difendere con ogni mezzo il proprio interesse. 

Dal panel emerge un’evoluzione notevole nell’Europa di età moderna: la rivoluzione dei consumi porta con sé nuovi modi di commettere e combattere la frode, ma soprattutto a cambiare è il modo di comprenderla, indicativo di radicali e irreversibili cambiamenti nella società di Antico Regime, che prefigurano la società che sarebbe venuta creandosi negli ultimi decenni del diciottesimo secolo, spalancando le porte all’Ottocento.   

L’eredità dell’Illuminismo tra storia globale e universalismo dei diritti dell’uomo

Oltre al seminario si sono tenuti altri eventi: prima della sessione plenaria, è stata svelata una targa in memoria del celebre ciclo di lezioni sul concetto di Europa tenute da Federico Chabod presso l’Ateneo milanese nel 19441; hanno partecipato il magnifico rettore Elio Franzini, il segretario di gabinetto del Comune di Milano Luca Gibillini, l’allora presidente regionale anpi Roberto Cenati, il direttore del Dipartimento di Studi Storici Andrea Gamberini e i presidenti delle tre società storiche generaliste (sisem, sismed e sissco).   

Si è tenuta anche una commemorazione per i vent’anni dalla scomparsa di Cesare Mozzarelli, professore di Storia moderna all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il luogo scelto per l’evento è stata la Pinacoteca Ambrosiana, luogo caro al professore, con cui aveva instaurato un rapporto di lavoro negli anni. Dopo il saluto di monsignor Marco Navoni, prefetto della Biblioteca Ambrosiana, hanno tenuto due brevi relazioni monsignor Franco Buzzi, dottore emerito della Biblioteca Ambrosiana, e Antonio Álvarez Ossorio, dell’Universidad Autónoma di Madrid.   

A chiudere l’assemblea è stata la lectio magistralis di Vincenzo Ferrone, dedicata a L’eredità dell’Illuminismo tra storia globale e universalismo dei diritti dell’uomo.    

La carriera di storico di Vincenzo Ferrone ha coinciso con uno sviluppo nello studio e nell’interpretazione dell’Illuminismo; la lezione, quindi, ha intrecciato le vicende di una vita di studi con gli sviluppi della storia dei Lumi negli ultimi quarant’anni.    

Il punto di partenza di Ferrone è stato a Torino, dove dominava la tradizione di Franco Venturi; una tradizione storiografica fortissima, che aveva avuto origine nella riflessione sui totalitarismi durante la Resistenza, ed era stata al cuore della rinascita storiografica del secondo dopoguerra, mettendo la settecentistica al centro della dibattito di quegli anni.  

Dai sentieri meno percorsi di quella linea interpretativa ha preso avvio l’esperienza scientifica di Ferrone; innanzitutto, i nuovi interessi portarono a sviluppare una nuova periodizzazione: l’intuizione la ebbe nel 1989 Giuseppe Giarrizzo, dividendo in due i Lumi, introducendo la nuova categoria di “tardo Illuminismo”, a partire dalla fine della guerra dei sette anni (1756-1763). Qui il pensiero illuminista prese una svolta pratica: il partito dei philosophes era al potere in tanta parte d’Europa e si dovette introdurre la riflessione sui diritti dell’uomo. La Gran Bretagna, nell’affermarsi si ergeva sopra tutti i rivali, forte della sua potenza marittima e commerciale; proprio alla base di questa stava la differenza che avrebbe allontanato l’Inghilterra dalla riflessione del tardo Illuminismo: una potenza che doveva giustificare lo schiavismo non poteva concepire i diritti umani e conoscere gli sviluppi delle scienze dell’uomo.   

Pietre miliari di questo pensiero sono Raynal, Herder e Filangieri, cui molti studi ha dedicato Ferrone; qui, a suo avviso, si trova la vera eredità dei Lumi: non nella Ragione del Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo di Immanuel Kant, ma in quel modello più affine alla riflessione di Diderot e dell’Encyclopédie, quello alla ricerca dell’umanità dell’uomo. Con questi assunti Ferrone è entrato nel dibattito globale sull’Illuminismo, dominato dalla tradizione anglo-americana, e al rapporto con quell’orientamento ha dedicato la seconda metà della lezione. 

I nuovi orientamenti storiografici sviluppatisi negli ultimi anni nel mondo anglofono non si possono più ignorare: con la global history e l’empire history bisogna fare i conti, senza però trascurare la tradizione del vecchio continente. Le riflessioni su un “Illuminismo globale” lavorano su assunti problematici: si ha un’astrazione dei Lumi tale da renderli irriconoscibili (quando non si ha, invece, una vera e propria falsificazione di cosa l’Illuminismo è stato e ha significato) e che vuole il pensiero europeo del xviii secolo una mera tappa – insignificante, aggiunge Ferrone – di un percorso ben più lungo. Eppure all’Europa qualche cosa va riconosciuta: parlare di Illuminismo globale vuole dire dimenticarsi l’origine di alcune delle idee fondanti del nostro mondo. Nei Lumi, per l’appunto; proprio in quel tardo Illuminismo cui il professore ha dedicato lo studio di una vita: i diritti umani sono e restano un’invenzione europea del xviii secolo.  

La lectio magistralis si è conclusa con un messaggio alle future generazioni di storici da parte di chi è giunto alla fine del proprio percorso accademico: dedicare la propria vita agli studi, avendo il coraggio di percorrere strade nuove, tenendosi lontani da sterili accademismi e facendo storia “per la vita”.   

Giovanni Baido e Daniele Musatti 

Note: 

1. La notizia è stata riportata con maggiore dettaglio sul magazine dell’Università: LaStataleNews che si può consultare alla pagina https://lastatalenews.unimi.it/targa-per-ricordare-federico-chabod-storico-partigiano