Davide Errichelli – Finchelstein, Dai fascismi ai populismi (Donzelli, 2019)

Nella dialettica politica e mediatica occidentale più recente si ha avuto la tendenza a identificare il fenomeno del populismo con quello del fascismo. La motivazione è da ricercarsi nella storia politica e ideologica dei continenti americano ed europeo. Si tratta infatti di aree che non hanno vissuto esperienze populiste fino al termine del XX secolo, quando il fenomeno ha iniziato qui a diffondersi a partire dall’Italia di Berlusconi. Gli Stati Uniti hanno addirittura a lungo vantato una tradizionale primazia in campo politico, autorappresentandosi come perfetta democrazia inattaccabile e infallibile. Le elezioni presidenziali del 2016 hanno certamente cambiato la storia, con la vittoria di Donald Trump, un populista “da manuale”. Il populismo è stato allora vissuto nel mondo occidentale come una novità, che non rispondeva a nessun tipo di categorizzazione preesistente: da qui si comprende l’assimilazione al fascismo, che invece aveva segnato profondamente l’esperienza politica europea. Poco importa che l’America latina del secondo dopoguerra avesse inaugurato una lunga stagione di governi populisti, o che tutt’ora ne esistano in altre parti del globo. Partendo da questa premessa, Federico Finchelstein mette in luce l’evoluzione del fenomeno e le reciproche influenze tra Stati di tutto il mondo, non solo limitandosi ai casi europeo e statunitense, che a lungo hanno dominato la produzione storiografica mondiale.  

Finchelstein è docente di storia alla New School for Social Research di New York ed è stato visiting professor all’Università di Milano. Si è formato in Argentina e negli Stati Uniti, dedicandosi principalmente al tema dei fascismi, termine declinato al plurale proprio per l’approccio transnazionale che ne caratterizza le ricerche. Pregio dell’opera di Finchelstein è l’aver storicizzato un fenomeno altrimenti prettamente politologico, inserendosi nel dibattito internazionale che vede, tra gli altri, un certo apporto da parte di Nadia Urbinati, della quale vengono ripresi diversi studi. 

L’approccio transnazionale è allora fondamentale per comprendere pienamente il fenomeno del populismo, che si afferma con caratteristiche contemporanee solo nel secondo dopoguerra in America latina, per poi diffondersi in Europa al volgere del secondo millennio. Un’analisi attenta rivela l’esistenza di una generica forma di protopopulismo, o prepopulismo, come fenomeno tipicamente europeo affermatosi cavallo tra il XIX e il XX secolo all’alba dell’entrata delle masse in politica. Tuttavia, Finchelstein non si sofferma su questo particolare aspetto della cultura politica democratica europea, in quanto non lascia nulla in eredità alle successive esperienze, se non un certo vocabolario intriso di riferimenti storici e imperiali, principalmente in Italia. Al contrario, l’esempio peronista avrebbe caratterizzato due intere generazioni di governi populisti: una prima spiccatamente latino-americana e una seconda più eurocentrica. La vittoria elettorale di Trump è uno spartiacque in materia: sia perché si tratta della posizione centrale dello Stato più importante e influente del mondo, sia perché segna una presa di coscienza da parte degli occidentali, che si sono inevitabilmente resi conto di non essere immuni a simili forme demagogiche. Da questo secondo aspetto deriva l’attenzione mediatica per il fenomeno populista, generalmente e genericamente fatto risalire al fascismo. 

Sebbene l’assimilazione del populismo al fascismo nasca da un sostanziale egocentrismo occidentale, è innegabile che vi sia una certa affinità tra le due esperienze politiche. Storicamente il populismo nasce in Argentina all’indomani della Seconda guerra mondiale, con la democratizzazione dell’allora dittatura militare da parte di J. Perón: passando così da una dittatura di stampo fascista a una regolare democrazia diretta. Dall’esperienza politica precedente, si manteneva quindi il diretto legame tra “vero popolo” e suo rappresentante, leader carismatico che ne incarnava i desideri e le aspirazioni e che riceveva direttamente il proprio mandato. La parte di popolazione che non si rispecchiava nell’eletto era denigrata e isolata, ma mai fisicamente minacciata: a differenza quindi di una dittatura di stampo fascista, dove i membri del non-popolo sono eliminati con la forza. La stessa figura del leader carismatico, mutuata dal fascismo, è limitata nel contesto del sistema democratico: del quale il populismo riconosce la validità e la legittimazione, pur sminuendone i metodi. 

Finchelstein analizza allora efficacemente il populismo, identificandolo come una rielaborazione del fascismo in chiave democratica: un fascismo che perde i suoi connotati più estremi, quali la violenza, l’instaurazione di una dittatura e il riconoscimento del vero popolo su base etnografica, pur mantenendone molti altri, sempre integrati e assimilati al riconoscimento della democrazia come unica fonte di legittimazione. 

Nelle dittature fasciste, l’identificazione del vero popolo avviene con l’elemento razziale: quindi del popolo come ethnos, caratterizzato dall’appartenenza al medesimo gruppo (sia esso razziale, religioso o altro), a differenza dei populismi, i quali, proprio perché profondamente radicati nella struttura democratica dello Stato, identificano il popolo come demos, escludendo quindi solo coloro i quali esprimono preferenze elettorali differenti. Gli esempi più recenti della storia occidentale mostrano però un cambiamento di sensibilità: giungendo a integrare nel concetto di demos quello di ethnos: esempio ne sono le derive razziste che hanno caratterizzato numerosi movimenti politici occidentali. Ciononostante, permane una profonda differenza ideologica tra fascismi e populismi: una diversa e opposta concezione della violenza. Nel caso dei fascismi, questa è accettata ed è il partito, movimento o Stato fascisti che, detenendone il monopolio, la utilizzano per eliminare i propri nemici, siano reali o immaginari, ma sempre interni; i populismi, contrariamente, condannano l’uso della violenza, giungendo a isolare i propri nemici solo a parole: identificandoli come estranei al popolo. 

L’elemento della violenza rappresenta dunque la principale differenza tra fascismi e populismi: essendo caratteristica dei primi e negata dai secondi. Tuttavia, l’aspetto principale dei populismi è ereditato direttamente dall’esperienza fascista: è nella prefazione che, A. Ventrone, individua come caratteristica principale dei populismi l’unanimità, ovvero l’idea che il vero popolo sia uno e uno solo, e la cui voce sia rappresentata da un unico capo carismatico. Questa figura è il leader del movimento populista, esclusivo interprete della volontà popolare: solo attraverso di lui si può realmente compiere la “vera” democrazia. Ventrone pone l’attenzione sul carattere paranoico dei populismi: l’ossessione di complotti, dell’esistenza di entità anonime impersonali che governano le vite dei cittadini e la ricerca di risposte totali. Si ha allora un vero popolo, contrapposto a una struttura democratica da ridefinire, perché ne ostacola l’espressione diretta con inutili contrappesi. Proprio questo aspetto appare nell’introduzione all’edizione italiana dell’opera, nella quale Finchelstein, a sua volta, sottolinea come in Italia la dialettica politica del primo Movimento 5 Stelle fosse proprio intrisa di riferimenti a un sistema che non funziona, con elezioni insensatamente complicate e indirette e al monopolio delle cariche da parte dei “tecnici”, che vanificano l’espressione popolare. 

Il riferimento a casi italiani, o generalmente occidentali, è contenuto solo in una porzione dell’opera, che invece tende a soffermarsi su esempi del mondo extra-occidentale; è dedicata una lunga parte ai populismi nel mondo arabo e mediorientale, così come a quelli africani e del sud-est asiatico. L’approccio transnazionale di Finchelstein tende a essere storico, geografico e logico. Uno studio sui populismi, in chiave storica e non solo politologica, può avere inizio solo dall’Argentina di Perón, per poi spostarsi sull’eredità che questa lasciò al resto del mondo. Sono analizzati i legami e le influenze delle esperienze populiste nel mondo, senza mai perdere di vista la transnazionalità che ne caratterizza lo studio. Il mondo occidentale è allora il punto di arrivo in questa opera, e non di partenza come invece una lunga tradizione storiografica ha imposto. L’elezione di Trump, i successi elettorali Orbán in Ungheria o Salvini in Italia sono allora analizzati come ultima riconfigurazione di quanto già accaduto in altre parti del mondo. 

Davide Errichelli 

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