Francesco Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie, Bollati Boringhieri, Torino, 2021.

Il testo, edito da Bollati Boringhieri nel 2021, è l’ultimo di una serie nella quale Francesco Filippi, attivo divulgatore e storico delle mentalità, tenta di sviscerare tematiche storicamente rilevanti ma, in genere, poco conosciute nella loro reale complessità dall’opinione pubblica. Tra gli altri libri dell’autore, pubblicati dalla medesima casa editrice, possiamo citare Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (2019), Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto (2020) e Prima gli italiani! (Sì, ma quali?) (2021). Nello specifico, nel libro qui esaminato, l’autore analizza il fenomeno del colonialismo italiano, argomento che la gran parte dell’opinione pubblica conosce superficialmente a causa dei molti silenzi o omissioni, basandosi in particolare dal punto di vista documentario su regi decreti, censimenti e articoli dei principali quotidiani italiani come il “Corriere della Sera” mentre, dal punto di vista storiografico, risalta il riferimento i lavori di Angelo del Boca, storico pioniere degli studi sul colonialismo italiano.

Secondo Filippi, nel secolo scorso il nostro Paese ha subito un vero e proprio sconvolgimento della cosiddetta “memoria collettiva” e le varie generazioni che si sono susseguite negli ultimi decenni hanno visto portare avanti narrazioni diverse, fino ad arrivare agli anni Novanta con il grande rimescolamento della storia italiana e il sorgere di dibattiti circa il nostro passato più recente, non sempre pacifico e corretto nei confronti «dell’altro». L’introduzione del libro parte da questa prima riflessione, che sottolinea come gli italiani si siano «persi un pezzo» (p. 9) di storia e vi sia la convinzione generale che l’assalto alle ricchezze africane abbia toccato solo marginalmente il nostro Paese e che l’esperienza coloniale italiana sia stata più blanda e meno feroce rispetto a quelle, ben più note, delle altre potenze europee.

Nel primo capitolo (Partenze) vengono analizzati gli avvenimenti che portarono l’Italia, nel giro di un ventennio, a passare da paese con un territorio coloniale incerto ad una delle agguerrite partecipanti alla conquista dell’Africa. La vicenda coloniale italiana inizia con l’acquisto, nel 1869, da parte dell’esploratore Giuseppe Sapeto, della baia di Assab, per conto della compagnia di navigazione Rubattino di Genova. Dopo pochi anni, il progetto della Rubattino entra in crisi e il governo italiano, convinto delle potenzialità commerciali della baia, acquisisce le proprietà di Sapeto nel 1882, trasformando quella che era nata come compravendita privata in un’annessione territoriale. Da qui, per motivare la graduale conquista territoriale che si avrà negli anni seguenti, si cominciano ad utilizzare giustificazioni di tipo morale ed economico: è giusto che la grande potenza italiana porti civiltà alle popolazioni più arretrate e che queste contraccambino con ricchezze economiche. Si arriva così, il 1° gennaio 1890, alla proclamazione della prima colonia italiana, che prende il nome di Eritrea.

Nel secondo capitolo (Arrivi) vengono messi in luce i racconti pubblici che vennero utilizzati in patria per giustificare l’impegno nel consolidamento dei possessi italiani d’oltremare. A seguito della battaglia di Adua il territorio venne «convertito» in colonia di popolamento, che venne raccontata come una terra vergine e fertile. Viene inoltre descritta da Filippi la creazione della colonia di Somalia con modalità simili a quella Eritrea, tramite accordi commerciali privati prima e acquisizione da parte dello Stato italiano dopo. In aggiunta vengono presentate le avventure coloniali a Tientsin, di Tripoli e del Dodecaneso. In seguito, viene preso in esame il periodo dell’impero fascista, che ha lasciato un ricordo molto più forte nella memoria pubblica. Il motivo di questo radicamento è legato alla forte azione di propaganda che venne a crearsi intorno alla vicenda.

Nel terzo capitolo (Contatti) viene analizzato il modo in cui si sviluppa il racconto pubblico intorno alle colonie e soprattutto ai loro abitanti. Sono queste le narrazioni che hanno intaccato il nostro modo di pensare il colonialismo italiano fino ai nostri giorni. L’idea principale è quella che il «dominio bianco» sia l’unico governo concepibile. Tra le principali giustificazioni alla conquista troviamo l’affermazione che i territori conquistati fossero «terre di nessuno» e gli italiani rappresentati come indiscussi portatori di civiltà.

Nel quarto capitolo (Ritorni) Filippi analizza i meccanismi attraverso i quali il Paese ha cercato di non fare i conti con il proprio passato. In questo senso, la privazione da parte degli Alleati di tutti i possedimenti coloniali italiani dopo la fine del secondo conflitto mondiale allontanò il fenomeno della decolonizzazione dall’opinione pubblica, cosa che invece non avvenne per le altri grandi potenze europee, che quindi svilupparono una maggior consapevolezza del proprio passato. Filippi individua un secondo passaggio fondamentale nella totale attribuzione delle brutalità coloniali a Mussolini, alla scarna storiografia sull’argomento e alla quasi totale inesistenza di ricerca storiografica sino agli inizi degli anni Duemila.

Il quinto e ultimo capitolo (Rigurgiti) cerca di inquadrare i punti di contatto rimasti nella cultura e nella mentalità di colonizzatori e colonizzati. Tra i sintomi del mancato distacco troviamo alcune espressioni come «ambaradan», termine ormai utilizzato quotidianamente per indicare una grande confusione. L’origine del termine deriva invece da «Amba Aradam, massiccio montuoso dell’Etiopia presso il quale le truppe italiane sconfissero nel 1936 l’esercito abissino in una cruenta battaglia», secondo la definizione del vocabolario Zingarelli (p. 148). Questa «cruenta battaglia» in realtà fu un vero e proprio massacro dove l’esercito italiano, guidato dal generale Pietro Badoglio, riuscì a sconfiggere l’esercito abissino solo grazie all’uso di gas e agenti chimici in violazione delle convenzioni di guerra. Per giorni, dopo la sconfitta, vennero sganciate ben sessanta tonnellate di iprite sulle colonne di soldati e sulla popolazione civile in fuga, causando ventimila morti. Filippi individua un altro effetto della scarsa capacità dei governi di chiudere i conti con il proprio passato nella mancata restituzione di svariate opere d’arte etiopi, come l’obelisco di Axum, che creò non poco scandalo nei primi anni del nostro secolo. Immediatamente prima della bibliografia troviamo un’utile cronologia che riassume i maggiori avvenimenti dell’epoca coloniale e che aiuta ad orientare al meglio il lettore nel lungo e difficile cammino dell’impresa coloniale italiana.

Il libro di Filippi ha un taglio molto deciso e appare chiara l’opinione dell’autore circa le tematiche trattate ma, nonostante questo, si comprende molto bene lo svolgersi delle vicende e il lettore è così in grado di sviluppare una propria opinione personale. L’elemento che emerge maggiormente da queste pagine è l’urgenza di mettere in luce quella che fu la realtà del colonialismo italiano. Viene sottolineato come uno dei motivi fondamentali per il quale nel dibattito pubblico non si parli ancora abbastanza di questo avvenimento è il fatto che gran parte delle colpe siano state attribuite al fascismo e all’opera di Mussolini. Ma la questione delle colonie italiane non si esaurisce con la guerra di conquista in Etiopia. Un significativo esempio di quello che fu l’impatto di questo fenomeno sulle terre conquistate lo troviamo nella celebrazione della festa nazionale somala il 1° luglio, giorno dell’indipendenza dall’Italia. Vi è una vera e propria necessità di affrontare la questione riguardante il passato del nostro Paese come invasore e conquistatore in quanto, senza questo confronto, diventa impossibile avere un approccio conscio e intellettualmente onesto ai problemi del presente.

Sara Betucchi