Mary Elise Sarotte, ‘Not One Inch’: America, Russia and the Making of Post-Cold War Stalemate, New Haven, Yale University Press, 2021

A trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica Mary Elise Sarotte pubblica un volume, il terzo della serie riguardante la riunificazione tedesca e la fine della Guerra Fredda, dedicato ai modi e ai tempi con cui si verificò la prima espansione della NATO. Degli anni Novanta, decennio che vide il crollo del bipolarismo e l’affermarsi di un nuovo ordine mondiale, Not One Inch esamina tutti i momenti fondamentali nei rapporti tra Europa, Stati Uniti e Russia e lo fa con una bibliografia mirabile, che Sarotte ha accumulato e analizzato sin dal 2007. Per questo motivo l’opera è destinata a divenire uno strumento imprescindibile per tutti gli studiosi che analizzeranno il periodo in questione e le relazioni tra Occidente e Russia, col suo tesoro di quasi 200 pagine di bibliografia, ovvero circa un terzo del volume. La mole di interviste condotte e l’accesso ad alcuni archivi privati che solo l’autrice ha potuto consultare – soprattutto registrazioni degli incontri privati tra Clinton e Yeltsin e l’archivio di James Baker – concorrono a rendere questa monografia la più recente e approfondita disponibile sull’argomento.

Il crollo dell’ordine bipolare e la fine, dopo 46 anni, dello status quo stabilito al termine della Seconda Guerra Mondiale generò pericoli e opportunità per il mondo, specie nell’Europa attraversata dalla cortina di ferro. In particolare, per la Germania quella fu l’occasione di risolvere l’annosa questione della sua riunificazione, sfruttando l’avallo americano e ottenendo, con denaro e garanzie, l’autorizzazione dei sovietici.

Fu questo il punto di partenza per l’espansione della NATO. Il crollo del Muro di Berlino e l’avvio delle migrazioni dalla Repubblica Democratica Tedesca a quella Federale, dovute al nuovo clima di cambiamento e libertà che le riforme di Gorbachev stavano generando nel Blocco Orientale, erano sintomi di instabilità. Scaturivano dalla fine imminente del precedente assetto internazionale, e gli stati coinvolti agirono per offrire una soluzione. Ciò permise al cancelliere Helmut Kohl di porre all’ordine del giorno il problema della riunificazione tedesca, riuscendo così a risolverlo in fretta – tra il novembre 1989 e l’ottobre 1990 – con la firma di un primo trattato che prevedeva l’espansione, seppur limitata da clausole, del Patto Atlantico verso Est. Con la riunificazione, infatti, il territorio della ex RDT sarebbe entrato nella NATO. Tale trattato, detto «2+4», sancì la prima modifica ai confini dell’Alleanza Atlantica, rappresentando il precedente di un accordo che era stato riconosciuto e accettato, seppur con remore e condizioni, anche dai sovietici. Le trattative che portarono alla firma del «2+4» furono un delicato e intricato lavoro diplomatico che  Sarotte riporta in tutta la loro complessità, mostrando come – nonostante l’Amministrazione Bush supportasse la volontà riunificatrice di Kohl – Washington avesse temuto fino all’ultimo che il Cancelliere potesse accettare uno status di neutralità e l’uscita di Berlino dalla NATO, pur di ottenere finalmente una Germania unita.

Fu appunto nei colloqui preliminari al «2+4» che James Baker, Segretario di Stato americano, parlando col suo corrispettivo sovietico Shevardnadze, chiese, ipotizzando: «Would you prefer to see a unified Germany outside of NATO, independent and with no US forces, or would you prefer a unified Germany to be tied to NATO, with assurances that NATO’s jurisdiction would not shift one inch eastward from its present position?»[1]. Nemmeno di un pollice, Not One Inch. Da qui l’espressione che dà il titolo al volume e che sarà poi presentata da Yeltsin a Clinton come prova di una promessa americana, fatta dall’amministrazione Bush, di non voler espandere l’Alleanza Atlantica.

Quella tedesca fu solo la prima e principale questione che il crollo del sistema bipolare poneva alla vecchie – gli Stati Uniti – e alle “nuove” – la Federazione Russa – superpotenze. Washington temeva il ritorno della volontà imperiale comunista, e per questo motivo entrambe le presidenze americane degli anni Novanta, Bush e Clinton, agiranno costantemente per mantenere al potere Boris Yeltsin, il presidente russo favorevole a collaborare con l’Occidente. Questo sostegno all’inquilino del Cremlino si dovette conciliare con la volontà dei paesi una volta appartenenti al Patto di Varsavia – in primo luogo Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria – di ottenere garanzie di sicurezza. Crollata l’U.R.S.S. ma non appartenendo ancora ad alcuna alleanza, i paesi del Gruppo di Visegrad premevano per essere accolti nel Patto Atlantico, e alcuni uffici di Washington concordavano con tali richieste – il National Security Council era il primo sostenitore dell’allargamento – che risultavano invece sgradite a Mosca. Per mantenere Yeltsin saldo al potere, gli americani capirono che l’allargamento non poteva verificarsi in modo rapido, bensì poco per volta, rassicurando costantemente entrambe le parti in causa – la Russia e paesi di Visegrad – che si stava agendo per soddisfare i rispettivi interessi e bisogni di sicurezza. In particolare, i russi erano ostili alle ipotesi di ingresso dei paesi che avevano composto la disciolta Unione Sovietica: le Repubbliche Baltiche, la Georgia e l’Ucraina. Soprattutto quest’ultima, che a fine 1991 diventava una nazione indipendente in possesso del terzo arsenale atomico mondiale, rappresentò durante la procedura di disarmo nucleare accordata tra Mosca, Washington e Kiev, uno dei dossier più delicati ma di maggior collaborazione tra le ex potenze rivali.

L’oscillazione del governo americano tra queste due volontà, decisamente contrastanti tra loro, è il filo conduttore del volume. Non è tanto la storia dell’allargamento della NATO a venire illustrata dall’autrice, bensì le personalità, gli atteggiamenti, i tentennamenti e i passaggi compiuti dagli uomini che dialogavano per trovare una soluzione alla questione: espandere l’alleanza senza perdere il rapporto positivo con Yeltsin. È difatti qui che si sente il peso della gamma di fonti e testimonianze che sostengono il volume: le citazioni letterali delle registrazioni degli incontri tra i presidenti russo e americano di cui il libro è ricco diventano il modo migliore per comprendere il portato e l’entità degli eventi.

Clinton e Bush riuscirono a rendere l’allargamento accettabile ai russi quasi fino al fatto compiuto, avanzando per gradi e passando tra le esperienze intermedie di istituzioni quali il Partenariato per la Pace, presentate come premesse ad una Russia nella NATO. Tuttavia, l’espansione ad Est si compiva dopo anni di vuote rassicurazioni e promesse verbali fatte al Cremlino: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria si univano al Patto Atlantico e Mosca ne restava esclusa. A essa non fu permesso di impedire i nuovi ingressi nell’Alleanza, né di diventarne mai membro a pieno titolo.

L’ambivalenza degli apparati americani che infine decisero l’allargamento senza curarsi delle criticità russe, nonostante i tiepidi tentativi di procedere con cautela e di concerto, è ciò che sancirà la fine della fiducia tra Casa Bianca e Cremlino che aveva caratterizzato l’inizio degli anni Novanta. Fine rappresentata nelle ultime pagine del volume dalla presa del potere in Russia, nel dicembre 1999, di un giovane ex funzionario del KGB, Vladimir Putin, meno disposto a collaborare con l’Occidente rispetto al suo predecessore.

È su questo epilogo che poggia la domanda di fondo del testo cui Sarotte ritiene di aver risposto: era possibile dopo la Guerra Fredda creare un rapporto più collaborativo tra NATO e Russia? L’autrice risponde positivamente, sostenendo che gli anni Novanta possono essere letti come un’occasione mancata. Dai documenti emerge con chiarezza come a tratti alcune personalità di spicco dell’Occidente – Genscher, Baker e Clinton nei primi anni – volessero davvero coinvolgere l’ex Unione Sovietica in progetti di sicurezza comune. Con un approccio più prudente e attento nel ridisegnare l’assetto securitario europeo sarebbe stato possibile soddisfare i bisogni di difesa degli ex paesi del Patto di Varsavia senza ledere lo status di grande potenza che la Russia ancora si attribuiva.

Analizzando la questione da questo punto di vista, il Partenariato per la Pace istituito nel 1994 si presenta come il miglior tentativo, fallito, di generare un’istituzione dedicata alla collaborazione tra stati nella gestione della sicurezza europea. Il Partenariato era stato accolto con entusiasmo sia da Clinton che da Yeltsin, ma non soddisfaceva né i paesi dell’Est Europa né il National Security Council. Nonostante avesse dato ottimi segnali durante la crisi di Yugoslavia, specie per la collaborazione sul campo di truppe russe e americane, rimase un istituto privo di veri poteri. Le azioni di Yeltsin nel 1993 verso il parlamento russo e nel 1994 in Cecenia furono i precedenti che condurranno le relazioni tra i due paesi a un punto di rottura che mai sarà sanato: il vertice OSCE del 1994 in cui Yeltsin accuserà Clinton di volere, procedendo con l’allargamento, «una pace fredda» come epoca successiva alla Guerra Fredda. Questi e altri fattori spinsero gli statunitensi a ritenere inattuabile una vera democratizzazione della Russia, continuando a considerarla un rivale geopolitico anziché un possibile alleato.

Oggi, giugno 2022, quest’opera si presenta profondamente attuale, visto che tra le cause del conflitto ucraino figurano anche i modi e i tempi dell’allargamento del Patto Atlantico, in quanto permette di capire qualcosa di più dell’assetto presente, e di dare una risposta – sicuramente parziale – al perché le relazioni internazionali, specie nello scenario europeo, si presentano nella loro forma corrente.

Stefano Mauro Forlani


[1]M. E. Sarotte, Not One Inch: America, Russia and the Making of Post-Cold War Stalemate, Danbury 2021, Kindle Ed. 12%.