Il sogno dell’Europa unita tra realizzazioni e fallimenti – Bookcity Milano, 16 novembre 2023

Nell’ambito della dodicesima edizione di BookCity Milano, il 16 novembre si è svolta la presentazione del volume Storia della costruzione europea. Dal 1947 a oggi di Antonio Varsori[1], edito da Il Mulino nel 2023. Sono intervenuti Marilisa D’Amico (ordinaria di diritto costituzionale e prorettrice dell’Università degli Studi di Milano), Lorenzo Mechi (professore di Storia delle relazioni internazionali dell’Università degli Studi di Padova), Antonio Varsori (professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali dell’Università degli Studi di Padova) e Michela Minesso (ordinaria di Storia delle istituzioni politiche presso l’Università degli Studi di Milano).

Introducendo l’incontro, Michela Minesso sottolinea come l’obiettivo dell’opera di Varsori sia il raggiungimento di uno sguardo distaccato dal processo d’integrazione europea, che da un lato non indulga eccessivamente sui valori positivi e dall’altro non ceda a critiche ingiustificate e aprioristiche.

Marilisa D’Amico evidenzia la chiarezza divulgativa del libro, ribadendo il carattere distaccato dell’analisi che Varsori compie, senza ideologismi o populismi, in chiave né positiva, né negativa.

D’Amico si sofferma poi sull’esordio di tale processo, descrivendo la storia dell’Unione Europea come una storia nata quasi per necessità, per ricucire il tessuto socio-economico lacerato dalla Seconda Guerra Mondiale e dai totalitarismi, che avevano esasperato gli ideali nazionalisti e impedito forme più avanzate di cooperazione internazionale. In particolare, si menziona il «nuovo ordine europeo» perseguito, come riporta Varsori nel suo libro, da Hitler e Mussolini[2].

A questi ideali si contrappongono i valori dei padri e delle madri costituenti dell’Unione Europea, ad esempio quello della solidarietà (valore espresso dalla Dichiarazione Schuman del 1950, in seguito concretizzatasi nella CECA). Ciononostante, D’Amico sottolinea come Varsori rinneghi ogni santificazione delle figure che contribuirono alla nascita dell’Europa unita, ritenendo impossibile tracciare una linea di continuità che vada dal 1950 all’Unione Europea odierna. Come scrive l’autore, infatti,

La costruzione europea (…) si è espressa in modi e obiettivi mutevoli, profondamente influenzati da situazioni interne agli stati europei, nonché dalle grandi dinamiche e dai rivolgimenti del sistema internazionale (…) divenendo spesso qualcosa di ben diverso dalle intenzioni dei cosiddetti «padri fondatori», che non è detto possedessero piani e visioni preordinate circa il futuro, anzi, talvolta, agirono sulla base di considerazioni e situazioni contingenti[3].

Una considerazione avvalorata da D’Amico, che ammette come non vi fosse a quel tempo un’unica visione: il federalismo di Spinelli o di De Gasperi si contrapponeva al funzionalismo di Schuman e Monnet, per quanto entrambe le prospettive rifiutassero un futuro con nuovi regimi dittatoriali. Prevalse la tesi funzionalista, di un’integrazione europea che procedesse gradualmente, partendo dalla cooperazione in alcuni specifici settori economici. Gli obiettivi finali di federalisti e funzionalisti erano, dunque, gli stessi; tuttavia, la storia ha dimostrato come la prevalenza dell’approccio funzionalista abbia portato l’Unione Europea, lontana dall’essere una federazione, a rimanere intrappolata troppo spesso in questioni di naturapolitica.

D’Amico analizza anche le tracce costituzionali dell’ordinamento sui generis dell’Unione Europea: da questo punto di vista, l’Europa ebbe origine dal diritto internazionale, ma se ne distaccò subito. Negli anni Ottanta, i giuristi che si occuparono dell’UE venivano soltanto in parte dal diritto internazionale, mentre molti erano costituzionalisti (che in alcuni Paesi, come la Germania, si “impossessarono” della disciplina comunitaria).

L’unificazione monetaria, che suggellò il passaggio dalla CEE all’UE, pose inevitabilmente il problema dell’unione politica. L’unico contenitore di un’Europa politica poteva essere una costituzione, non semplicemente calata dall’alto, ma basata su due pilastri fondamentali: quello dei diritti e dei doveri delle persone, nonché dei principi organizzativi di uno Stato democratico, come la separazione dei poteri e la presenza di organi di garanzia. Sul primo versante, significativa, benché adottata da una Commissione non eletta, fu la Carta di Nizza, che garantì una serie di libertà fondamentali ai cittadini dell’Unione. Purtroppo fu il momento politico a mancare: il trattato costituzionale del 2004 non venne, infatti, sottoposto a un processo di ratificazione dal basso e democratico. Il referendum si svolse in Francia e nei Paesi Bassi, con un esito negativo che bloccò l’intero processo costituente.

Negli ultimi vent’anni sono sicuramente intervenuti importanti cambiamenti, come il Trattato di Lisbona, ma non si è verificata una riconnessione all’UE come meccanismo giuridico deciso dai governi e legittimato dal basso: fra le altre cose, manca tutt’oggi una difesa comune.

Infine, D’Amico evidenzia la parte conclusiva del volume, dedicata alla crisi finanziaria e a quella migratoria, alla Brexit, alla pandemia da COVID-19 e alla guerra in Ucraina. Varsori scrive nel volume che

la pandemia da COVID-19, dopo un iniziale periodo di sbandamento e di incertezza, parve al contrario rappresentare per l’Unione Europea l’opportunità per svolgere un ruolo di rilievo, soprattutto per quanto concerneva la ripresa economica dopo le negative conseguenze dei vari lockdown (…) Si distinse la Commissione, che comunque parve favorita anche dalla relativa debolezza delle leadership dei due maggiori stati membri [Germania e Francia]. Il Next Generation EU non rappresentava, soprattutto nella visione della Commissione, un semplice piano di ripresa economica, ma si legava strettamente a una serie di obiettivi ambiziosi e di lungo periodo, che sembravano preludere a cambiamenti radicali quanto rapidi del sistema produttivo e persino dei modi di vita[4].

Nel riprendere la parola, Michela Minesso sottolinea lo studio che Varsori compie dei rapporti, spesso intrecciati, fra i vari apparati istituzionali dell’Unione Europea, ossia Commissione e Parlamento, ma anche del dialogo con soggetti esterni, quali gli Stati nazionali e gli USA. Un altro dei fili conduttori del libro è, infatti, il legame fra gli USA, come potenza maior,e l’UE come potenza in fieri, che trova spazio di manovra solo in seguito al “ritiro” della prima a cavallo fra anni Sessanta e Settanta.

Lorenzo Mechi, in apertura del proprio intervento, descrive l’opera di Varsori come un manuale universitario snello, ma esaustivo, domandandosi se la prevalenza di autori italiani nella bibliografia sia dovuta o meno a una volontà di rimarcare l’importanza della nostra storiografia.

Egli si sofferma poi su quattro elementi in particolare. In primo luogo, problematizza il peso delle idee nel processo di integrazione europea, in quanto l’UE odierna si differenzia da quella immaginata dai padri fondatori.

Successivamente individua due fasi che diedero il via a un preciso assetto socioeconomico: la creazione della CEE, con la prima forma di integrazione economica rappresentata dal mercato comune, e il passaggio collocato attorno alla metà degli anni Ottanta, che condusse all’Atto Unico Europeo e al Trattato di Maastricht, con i concetti di mercato unico e moneta unica. Il libro di Varsori appare esprimere un giudizio sostanzialmente positivo sulla prima fase, mentre più sfumato sulla seconda.

In terzo luogo, Mechi sottolinea due aspetti degli allargamenti di CEE e UE: innanzitutto concentra l’attenzione sugli squilibri dello sviluppo socioeconomico preesistente, senza negare il rafforzamento rappresentato dal primo allargamento e poi da quello a Sud degli anni Ottanta; in seguito sottolinea l’importanza della democratizzazione, soprattutto a partire dagli anni Settanta. In quest’ottica, fra l’allargamento a Sud e quello a Est degli anni Duemila sono individuabili analogie e differenze.

Infine, affronta il tema delle personalità politiche, chiedendosi quali possano essere oggi i padri e le madri dell’Europa, individuando esplicitamente un’unica figura di rilievo: la tedesca Angela Merkel.

Nel riprendere la parola, la professoressa Minesso commenta sinteticamente l’intervento del professor Mechi. Si sofferma sulle difficoltà causate dalla scarsità di fonti riguardanti il periodo post Maastricht, per poi porre l’accento sulle tematiche conclusive. Rimarca, infatti, la centralità del ruolo dei “grandi” nel determinare il processo di costruzione europea, secondo l’idea che la storia si faccia anche con le biografie. Ritorna, infine, sulla questione degli allargamenti ed individua i limiti più grandi nel diverso retroterra storico dei Paesi inclusi. Maggiori le discrepanze storico-culturali, maggiori le difficoltà e le sfide poste dal processo.

Infine, prende parola il professor Varsori, dopo una breve introduzione sempre della professoressa Minesso, che ricorda alcuni dei suoi principali lavori: Le relazioni internazionali dopo la guerra fredda e Dalla rinascita al declino. Storia internazionale dell’Italia repubblicana, edite da Il Mulino. Proprio l’esperienza maturata nella stesura di queste monografie, e in quanto studioso di relazioni internazionali, è confluita nel suo ultimo volume, dove l’autore si impegna in una disamina approfondita, ma senza la pretesa di fornire risposte assolute ai quesiti di ricerca. Egli ha scelto di scrivere un testo in primis accessibile e rivolto soprattutto agli studenti, ma non privo di carattere scientifico, ragione per cui ha inserito le note a piè di pagina. Parlando della bibliografia, Varsori risponde alla domanda formulata dal professor Mechi, riguardo la decisione di privilegiare nel corpus bibliografico autori italiani: a motivarla, dice Varsori, è stata una duplice volontà. Da un lato l’intento di dare risalto a lavori italiani spesso poco conosciuti all’estero, come ipotizzato da Mechi, dall’altro, il riconoscimento di grande vivacità e completezza alla storiografia italiana dedicata all’integrazione europea. Diverso il caso della Francia, ad esempio, dove l’interesse intellettuale è stato molto forte nella fase nascente dell’Europa unita, ma ha subito un calo significativo negli ultimi anni. Varsori ha, quindi, scelto di privilegiare i contributi italiani in un periodo dominato da produzioni anglofone (anglosassoni, ma anche nordeuropee).

L’autore rimarca poi quanto scritto nell’introduzione del volume[5], circa le difficoltà che, da storico, ha dovuto affrontare nel trattare un tema contemporaneo ed estremamente vicino al presente. Come in passato, quando si è occupato della Guerra Fredda, ha dovuto compiere uno sforzo di astrazione, nel tentativo di separare l’oggetto di studio, il processo di integrazione europea, dalla realtà quotidiana vissuta in prima persona, una realtà condizionata notevolmente dall’Unione Europea. Se possibile, Varsori ritiene il tema dell’Europa ancor più insidioso da questo punto di vista: basti pensare alle numerose cattedre finanziate dall’UE, che hanno finito per esercitare un’influenza, sebbene spesso inconscia, sugli studi europei che ne dipendono. Il risultato è la ricorrenza di lavori che dipingono l’Unione Europea come il prodotto finale di un processo storico necessario e moralmente positivo. Nelle parole di Varsori, il loro limite risiede nell’essere «condizionati da impliciti giudizi di valore o in certi casi da una visione “teleologica” pregiudizialmente favorevole al processo di integrazione»[6].

Il professore si distanzia da questa concezione, che poggia su un’idealizzazione dei padri fondatori dell’Europa unita e delle loro visioni. Non avrebbe senso “santificare” grandi personalità che hanno avuto, sì, un ruolo determinante nella storia europea, ma che si muovevano in un contesto e con dei valori fondamentalmente diversi da quelli presenti, e dunque non comparabili. Spesso quest’idealizzazione rafforza un concetto di integrazione europea come un processo fondamentalmente lineare e necessario; posizione che Varsori critica. Il risultato è che le difficoltà del processo di integrazione vengono identificate come meri “incidenti di percorso”, destinati ad essere superati.

Varsori ritiene, al contrario, che i momenti di cesura siano stati prevalenti rispetto alle continuità nella storia dell’Europa unita. Queste ultime sono soprattutto istituzionali e si possono rintracciare specialmente in organi quali la Commissione e la Corte di giustizia. Al di fuori di esse, la storia della costruzione europea ha visto cesure significative (si pensi alla sua evoluzione, da una fisionomia atlantista e ispirata a princìpi liberisti a una quasi socialdemocratica negli anni Settanta, ai diversi allargamenti e così via). A ben vedere, aggiunge Varsori, le discontinuità sono presenti anche sul fronte istituzionale, soprattutto per quanto riguarda il processo di trasformazione del Parlamento e la progressiva espansione dei suoi poteri. Questo perché le istituzioni europee, come le conosciamo oggi, non sono il fine di un processo storico inevitabile, ma il risultato di uno sviluppo contingente e influenzato fortemente dalle dinamiche globali.

Per questo, il professor Varsori tende a ridimensionare il ruolo delle grandi personalità, riprendendo l’affermazione fatta dalla professoressa Minesso a conclusione dell’intervento di Mechi. Per Minesso, infatti, la storia si scrive anche attraverso le biografie; secondo Varsori, per quanto sia innegabile l’influenza determinante, per citare solo alcuni, di De Gaulle, Pompidou, Kohl o Mitterrand, è fondamentale analizzare la storia europea come evoluzione dei rapporti tra Paesi, inseriti in un preciso contesto di relazioni internazionali.  

In quest’ottica, e tenendo ancora una volta presenti le discontinuità che caratterizzano la storia europea, il professore affronta, successivamente, la tematica dell’impatto della costruzione europea sui cittadini. Fino agli anni Settanta essa interessava poco il singolo individuo, preoccupato molto di più dalla Guerra Fredda e dalla crisi economica petrolifera, che toccavano da vicino la vita delle persone. Le istituzioni europee erano lontane e interessavano soprattutto pochi gruppi di interesse: politici, agricoltori e industriali. Questo è cambiato dagli anni Ottanta, quando la Commissione europea ha ottenuto il potere di modifica del bilancio e i fondi strutturali sono stati estesi oltre la Politica Agricola Comune. La Comunità Europea avviò il processo di trasformazione in Unione Europea, con un rafforzamento progressivo degli aspetti di unione politica ed economica e l’abbandono graduale delle politiche protezioniste verso l’esterno, evidenti soprattutto nella PAC. Il processo di apertura continuò negli anni Novanta, con l’adeguamento alle norme della World Trade Organization, trovando il maggior compimento nella moneta comune. Questi cambiamenti comportarono un coinvolgimento dell’opinione pubblica di gran lunga superiore, aumentando la fiducia nell’integrazione europea, che indubbiamente diede notevoli risultati in ambito economico e che Varsori definisce «gioco vincente». Tuttavia, l’attuale Unione Europea si trova ad affrontare un nuovo momento di sfiducia da parte dell’opinione pubblica dopo il crollo economico-finanziario globale del 2008. In seguito alla crisi, l’UE non è riuscita a mantenere lo Stato sociale costruito nei decenni precedenti e le sue norme sembrano nuovamente derivare dall’alto. Anche questo aspetto, per Varsori, dimostra come l’Unione Europea (prima Comunità Europea) sia un “contenitore” dei rapporti tra Stati, che, a seconda dei contesti storici ed economici in cui sono immersi, scelgono di regolare le reciproche relazioni ogni volta in modo diverso.

Sebbene Varsori non concordi pienamente con l’ostilità, spesso puramente retorica, rivolta all’“Europa dei burocrati”, ritiene che questo rinnovato scetticismo sia fondato. La costruzione europea ha sempre poggiato sul lavoro di un’élite ristretta, tanto da far parlare di deficit democratico (che Varsori non affronta nel dettaglio in questa sede) e di “consenso permissivo” da parte della popolazione. Ma se, inizialmente, il lavoro della classe politica europea si dimostrò molto proficuo, tali benefici sembrano essere venuti meno dopo la crisi del 2008. È, dunque, comprensibile che i cittadini, la cui vita quotidiana è influenzata in profondità dagli indirizzi politici ed economici europei, reagiscano con scoramento di fronte a tali inadeguatezze.

In conclusione, Varsori affronta il tema degli allargamenti, anch’essi momenti di rottura nel processo di costruzione europea, ed esprime le sue perplessità in riferimento soprattutto all’allargamento verso Est, il più problematico e di più lunga realizzazione, che incluse i Paesi ex comunisti. Gli allargamenti risposero all’inizio a criteri strettamente giuridici: formalmente, il parametro per aderire alla Comunità Europea (e poi Unione Europea) è triplice: la presenza di un sistema politico democratico e liberale, un’economia di mercato e l’accettazione dell’acquis comunitario. Nonostante ciò, sottolinea Varsori, disparità evidenti nella forza economica dei Paesi membri costituiscono un problema significativo e, soprattutto, questi requisiti non tengono adeguatamente conto delle differenze storiche e culturali esistenti. Così, Stati inclusi nel blocco sovietico durante la Guerra Fredda sono entrati a far parte, per quanto con prudenza e gradualità, di istituzioni nate sotto il segno ideologico ed economico dell’Europa occidentale, con tutte le problematiche che ne conseguono (ad esempio, l’atteggiamento verso la Russia).

Nel suo intervento, il professor Varsori tenta, dunque, di esaminare tutte le tematiche menzionate dai relatori. Ne emerge la volontà di affrontare l’argomento in modo il più possibile equilibrato, riconoscendo diversi meriti al processo di costruzione europea, ma anche la ragionevolezza di molte critiche.

di Arianna Capucci e Michele Cacciapuoti


[1] Antonio Varsori, Storia della costruzione europea. Dal 1947 a oggi, Bologna, il Mulino, 2023.

[2] Ivi, p. 19.

[3] Ivi, pp. 49-50.

[4] Ivi, p. 330

[5] Ivi, p. 9.

[6] Ivi, p. 10.