La révolution de l’imaginaire. Fictions, inventions, récits, écritures. 1780-1820. Convegno internazionale di studi, 19-20 ottobre 2023


Una rivoluzione dell’immaginario per immaginare la Rivoluzione? Note a margine di un recente congresso

Se è una pratica diffusa recensire saggi storiografici di recente pubblicazione, accade più di rado di trovarsi ad illustrare scopi, meriti e criticità di incontri scientifici che, per loro natura, rappresentano altrettante tappe di percorsi di indagine ancora in atto. A tracciare i contorni, le ambizioni e le difficoltà di progetti collettivi in via di svolgimento pensano di norma gli organizzatori di quelle medesime giornate di studio. Quanti vi assistono, dal canto loro, conoscono le “regole del gioco” e sanno bene che anche la più riuscita presentazione orale è sottoposta ad un processo di meticolosa revisione prima di raggiungere la forma definitiva con cui sarà lasciata libera di circolare fra gli studiosi coevi. Pertanto, potrebbe apparire prematuro svolgere alcune considerazioni critiche a margine di un evento da poco conclusosi. Diverse ragioni, tuttavia, giustificano la scelta di redigere queste note di commento circa il convegno La révolution de l’imaginaire. Fictions, inventions, récits, écritures, 1780-1820, tenutosi presso l’Università degli Studi di Milano il 19-20 ottobre 2023, senza attendere la pur auspicabile pubblicazione dei suoi atti.

Con una battuta, si potrebbe affermare che il proposito di analizzare in che misura e con quali esiti la Rivoluzione francese, nel suo stesso farsi, abbia spinto quanti la vivevano a pensarla, interpretarla, inventarla mediante scritti di storia, opere letterarie e narrazioni di vario genere redatti “a caldo”, nel turbinio degli eventi, per renderli intelligibili, posizionarsi rispetto ad essi ed intervenire nel loro svolgimento, meriti un altrettanto pronta disamina. Ma c’è di più. L’iniziativa milanese si è configurata come una delle battute finali del PRIN 2017 “Genealogie rivoluzionarie: discorsi storici, costruzione dell’esperienza e scelte politiche nelle rivoluzioni di età moderna” (coordinatore nazionale: prof. Antonino De Francesco) e ha seguito a distanza di un anno un “evento gemello”, la giornata di studi Faire, écrire, raconter et inventer les Révolutions, organizzata da Pierre Serna presso l’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne nel dicembre 2022[1]. Per quanto necessariamente sintetici e a tratti disparati, gli interventi ospitati hanno dovuto quindi confrontarsi con degli interrogativi fondamentali e dei paradigmi metodologico-interpretativi già da tempo ben delineati, sforzandosi di verificarne la bontà e di metterli a frutto attraverso puntuali casi di studio. La partecipazione di alcuni studiosi italiani, francesi e spagnoli ad entrambi gli eventi, oltre a segnalare l’esistenza di vivaci collaborazioni triangolari secondo comuni prospettive di indagine, ha dimostrato che il cantiere di ricerca è a uno stadio piuttosto avanzato, tanto che non poche delle presentazioni riprendevano da diversa angolatura temi, fonti e metodi già impiegati in precedenza dagli stessi autori. Di conseguenza, si è trattato di un incontro scientifico non a carattere “fondativo” – per quanto non privo di ambizioni – bensì inteso a dare ulteriore sviluppo, coerenza e solidità a modi di fare la storia della Rivoluzione francese che, delineatisi da circa un decennio a questa parte, hanno riscosso un crescente successo ma debbono ancora essere testati estensivamente sul campo[2]: di qui la possibilità di servirsene per tracciare un bilancio più generale – ancorché non esaustivo – di quelle stesse recenti piste di ricerca.

Innanzitutto, è opportuno rilevare come il convegno milanese si è posizionato in relazione ad iniziative simili ed agli studi appena menzionati. L’arco cronologico selezionato ha implicato la decisione di focalizzarsi su un solo, principale evento rivoluzionario (quello francese, comprensivo della successiva esperienza napoleonica), escludendo tanto il precedente americano quanto le rivoluzioni costituzionali dei primi anni ’20 dell’Ottocento: una scelta che si è ripercossa anche sulla dimensione spaziale presa in esame, essenzialmente eurocentrica con la sola eccezione della relazione di Amanda Maffei (Les “Genetiques” di Tanguy de la Boissière: finzione e lotta politica tra Nuovo e Vecchio Mondoi) circa la costruzione, selezione e circolazione di (false) notizie sulla politica antillese del governo girondino (1792-1793) nel periodico bilingue American Star / L’étoile américaine, edito a Philadelphia e molto diffuso fra gli ex coloni di Saint-Domingue riparati negli Stati Uniti[3]. Tale scelta, in controtendenza rispetto sia all’antecedente giornata di studi di Parigi che riservava ampia attenzione all’area caraibica e sudamericana, sia ai volumi collettanei citati poc’anzi, ha avuto rispettivamente un vantaggio ed un limite.

Da un lato, ha permesso di ribadire un’acquisizione storiografica su cui appare sempre più difficile dubitare: ossia l’assoluta centralità della scrittura della storia, in ogni fase della Rivoluzione francese, quale atto utile a dare un senso all’accumulazione accelerata degli avvenimenti di cui si era testimoni ed attori, allo scopo di prevederne gli ulteriori sviluppi, setacciare un orizzonte di possibilità di azione ed influenzare gli eventi stessi indirizzando il dibattito pubblico in una direzione o in un’altra. Una tesi, quest’ultima, tanto più convincente quanto più si riconosca alla scrittura della storia «un carattere polimorfo»[4], rintracciandola cioè in «toute écriture qui fabrique du passé présenté comme non fictif»[5] (e quindi anche nei discorsi parlamentari, nella pamphlettistica, nelle celebrazioni pubbliche, nei resoconti della stampa ecc.). Dall’altro lato, tuttavia, il concentrarsi soltanto su un quarantennio a cavallo fra i secoli XVIII e XIX ha lasciato inevasa una questione di più ampio respiro: quanto una così pervasiva tendenza a pensare e narrare il passato (più o meno recente) così da intervenire sul presente e prefigurare il futuro era una caratteristica unica ed eccezionale dei rivoluzionari (e dei contro-rivoluzionari) della Grande Nation e dei suoi satelliti? In altri termini, posto che la Rivoluzione francese abbia aperto al regime di storicità moderno ed al contempo costituito un parziale, tardivo sussulto di quello antico sotto la peculiare forma di una moltiplicazione di parallels pour temps de crise (ricostruzioni storiche tese a identificare analogie fra il passato e gli avvenimenti presenti)[6], quale ruolo giocarono la scrittura della storia e la ricerca di parallelismi nelle rivoluzioni ottocentesche, europee ed extra-europee? Insomma, se è certo che a partire dagli anni della Restaurazione la Rivoluzione francese divenne un «mito da screditare o elogiare, da scongiurare o riproporre» in chiave storico-comparativa nel farsi delle rivoluzioni (o nel tentativo di impedirle)[7], appare urgente sviluppare ricerche capaci di ricostruire, attraverso casi di studio precisi, in che misura i meccanismi di scrittura della storia ed il loro uso fossero somiglianti o differissero, in termini quantitativi e qualitativi, con quelli propri del periodo rivoluzionario-napoleonico, così da meglio illuminare, di riflesso, le dinamiche del pensare e dell’agire politico di quest’ultimo. Soprattutto quando il religioso si mescolava al politico, come nelle lettere pastorali e nei sermoni degli ecclesiastici spagnoli analizzati da Francisco Javier Ramón Solans nel suo 1789 dans la Contre-révolution espagnole: entre vies parallèles, magistra vitae, complot et apocalypse, diventa davvero arduo distinguere in quali casi il ricorso alla comparazione con eventi occorsi secoli o decenni addietro (la devotio moderna erasmiana, la Riforma, i Lumi, ecc.) serviva a situare gli avvenimenti presenti, puntava a spaventare e mobilitare le masse anche a costo di far circolare false notizie (come già emerso anche nell’intervento di Maffei sulla stampa periodica) o fungeva da prefigurazione del futuro secondo una lettura provvidenzialistico-apocalittica della storia. Senza un’accurata categorizzazione dei diversi attori storici, una disamina della loro cultura e una contestualizzazione delle aree geografiche in cui le loro (ri)letture del passato avevano corso, si corre il rischio di registrare semplicemente che esse erano numerose nelle società europee a cavallo fra XVIII e XIX secolo e che coesistevano differenti modi di costruire la relazione fra passato, presente e futuro (ricerca di precedenti esplicativi e prefigurativi; uso strumentale per le necessità immediate della lotta politica; prospettiva escatologica, ecc.). Così facendo, però, si finirebbe per non determinare quale fra queste opzioni fosse prevalente, per quali motivi e per quanto tempo, rendendo impossibile giudicare se il periodo rivoluzionario-napoleonico abbia costituito una fase di transizione fra due diversi regimi di storicità o, invece, sia stato un momento effervescente ma non risolutivo di un percorso molto più lungo di secolarizzazione del modo d’intendere il divenire storico e di abbandono di prospettive analogico-prefigurative.

In ragione dell’arco cronologico su cui il convegno si è focalizzato solo due relazioni hanno potuto almeno in parte interrogarsi sulla persistenza della ricerca di parallelismi col passato e antecedenti storici nell’Europa delle dinastie restaurate. Nel suo intervento intitolato Préparer la Restauration en lisant la Révolution: une lecture complottiste depuis 1814,Pedro Rújula ha ripreso delle suggestioni di Miguel Artola e sottolineato un paradosso degli “eredi” spagnoli della Rivoluzione, ossia degli esponenti liberali delle Cortes di Cadice. Essi erano impossibilitati a rivendicare sotto il profilo storico i debiti politico-intellettuali contratti con l’esperienza del decennio 1789-1799 per via dell’identificazione della Francia con le violenze rivoluzionarie e con la guerra portata da Napoleone nella penisola iberica. Il loro tentativo di “inventare” delle libertà medievali da ristabilire nel nuovo regime costituzionale, sotto le quali erano mascherati i nuovi diritti proclamati nell’89, si rivelò debole e facilmente attaccabile da una massiccia produzione a stampa di carattere contro-rivoluzionario che, al contrario, proprio sugli aspetti più deleteri della storia rivoluzionaria di Francia insisteva per screditare gli avversari e denunciare complotti sovversivi. Solo nel 1820 i liberali spagnoli si sarebbero liberati di questa spada di Damocle, potendo rivendicare finalmente con orgoglio un’autoctona tradizione politica risalente appunto al periodo della Guerra de la Independencia[8]. Giacomo Girardi, invece, ha preso in esame lo sviluppo della leggenda nera napoleonica nella penisola italiana in una relazione intitolata Bonapartiana: le “colpe dell’imperatore” alle origini della leggenda nera (1814-1815)[9]. Ha così messo in luce che non pochi autori di lingua italiana, pur criticando veementemente l’ex-imperatore, finirono sorprendentemente per polemizzare con Chateaubriand ed il suo celebre pamphlet De Buonaparte et des Bourbons, vera e propria architrave della légende noire d’oltralpe. Quest’ultimo, infatti, condividendo i pregiudizi propri di taluni militari e funzionari imperiali nei confronti degli amministrati della penisola[10], poneva la “insularità” e la “italianità” di Napoleone (nativo della Corsica) a fondamento di tutte le sue perversioni (spietatezza, cinismo, vendicatività, mancanza di rispetto della parola data, ecc.) allo scopo di presentarlo come una sorta di corpo estraneo alla nazione francese ed alla sua storia. Gli autori italici, al contrario, fecero ricorso a diversi episodi della storia francese (in primis richiamando alla mente dei lettori l’efferatezza della Notte di San Bartolomeo) per dimostrare che l’esercizio della sovranità oltralpe si legava a doppio filo ad una lunga tradizione di sopraffazione e violenza propria della civiltà francese, riscattando così il “carattere italiano” dalle accuse mosse da Chateaubriand; in tal modo, essi rivelavano atteggiamenti complessi, all’insegna tanto del completo rifiuto della dominazione napoleonica quanto della valorizzazione dell’italianità sotto il profilo culturale e, a tratti, politico.

Un’ulteriore particolarità del convegno milanese è consistita nell’ampio spazio dedicato alla produzione di narrazioni fittizie (a volte esplicitamente tali, altre presentate come récits basati su fatti realmente avvenuti) durante il periodo rivoluzionario o in merito ad esso. Il presupposto è che anche opere letterarie in prosa o in versi, racconti, creazioni artistiche quali dipinti e stampe consentano una peculiare lettura degli avvenimenti e nascondano non di rado intenti politici a corto o lungo termine; di qui la decisione di concentrarsi su tutti quegli strumenti atti a formare e veicolare gli immaginari concretamente operanti nel quarantennio in esame. Due relazioni si sono intrattenute su récits che erano il frutto di pura invenzione, ma che rivendicavano la loro veridicità ed anzi promettevano di svelare il reale svolgimento degli eventi, giocando sul permeabile confine tra certo ed incerto, manifesto ed occulto, auspicabile e temibile. Giulio Tatasciore, apportando un ulteriore tassello agli studi da lui condotti da diversi anni a questa parte[11], ha ripercorso l’evoluzione della figura del brigante nell’immaginario rivoluzionario durante i primi anni ’90 del Settecento (Briganti a Versailles? Confessioni e complotti in un dialogo fittizio dell’estate 1790). Egli ha così dimostrato che la tipizzazione del brigante all’insegna di alcune caratteristiche peculiari (aspetto feroce, linguaggio gergale ecc.) capaci di renderlo non solo identificabile ma anche e soprattutto “altro”, marginale rispetto al resto della società (ed alla Nazione), fu molto precoce. Lo dimostra la Lettre curieuse sur la rencontre et les aveux d’un brigand nommé Camaro, apparsa anonima all’indomani della Festa della Federazione (1790) ma di mano del giornalista e politico fogliante Giuseppe Antonio Cerutti. Questi si servì delle presunte confessioni di un malfattore per mettere in guardia contro la presenza di malviventi e agenti provocatori nei clubs e tra il popolo, e così denunciare i rischi di anarchia impliciti nelle giornate rivoluzionarie che andavano progressivamente indebolendo il potere del re e dei costituzionalisti monarchici. La plasticità di una figura capace di essere al contempo un’icona di brutalità e un catalizzatore delle ansie collettive spiega la successiva trasformazione del brigante in qualcosa di diverso nel procedere del decennio: in particolare dal 1792 in poi, questa figura venne associata non più solo ad una generica combinazione di sedizione politica e violenza a scopo di rapina, ma anche all’esistenza di complotti controrivoluzionari. L’immaginario del brigante si configurò insomma come un’arma perfetta per criminalizzare gli avversari che vi erano accostati e per dare corpo ad una lotta politica intesa come il riproporsi di oscure minacce depotenziate dal provvidenziale disvelamento di quanto i (variabili) nemici del giusto corso della Rivoluzione andavano tramando nell’ombra. Quanto la costruzione di récits opportunamente manipolati fosse utile per dirigere l’esprit public e risolvere momenti di crisi è stato messo in rilievo anche da Daniele Di Bartolomeo (Excusatio non petita: dialoghi e immagini fittizie di Brumaio). La sua indagine si è basata su fonti di tipo diverso: un entretien fittizio tra due membri del Consiglio degli Anziani e del Consiglio dei Cinquecento, redatto da P.-M. Roederer ma pubblicato in forma anonima sul Moniteur del 19 brumaio anno VIII, e alcune rappresentazioni iconografiche dello scontro fra Bonaparte ed i parlamentari riuniti a S. Cloud, apparse nel biennio 1800-1802. Il loro confronto ha messo in luce la difformità delle narrazioni su quell’episodio, dipendenti dal contesto della loro produzione. Nel turbinio delle due cruciali giornate, l’entretien di Roederer mirava a tranquillizzare l’opinione pubblica e a smentire il parallelismo fra quanto andava accadendo e l’assunzione della dittatura da parte di Cesare o Cromwell. Conclusosi il colpo di stato, Bonaparte, bisognoso di acquisire maggiore legittimità, promosse al contrario quello stesso parallelismo fra sé ed il generale romano al fine di giustificare l’uso della violenza contro il Consiglio dei Cinquecento, accusato di tentato cesaricidio.

Il possibile impatto politico di opere più esplicitamente letterarie costituisce il collante di altre quattro relazioni. In questi casi, significativamente, i loro autori si trovavano a fare i conti con un contesto politico “bloccato” che li obbligava a trovare altre vie per incidere su di esso. L’intervento di Pierre Serna, dal titolo La dot de Suzette ou Y a-t-il un homme dans la Contre Révolution?, ha fatto riferimento in effetti alla fase del Direttorio, quando una serie di colpi di stato resero vane le vittorie elettorali dei monarchici e dei democratici negli anni VI e VII della Repubblica; mentre quello di Stefano Levati (La giornata degli ombrelli (20 aprile 1814) e le sue conseguenze in una satira meneghina) ci ha riportato all’epoca della Restaurazione asburgica in Lombardia. Gli scritti di natura letteraria, inoltre, erano funzionali per quanti stentavano a prendere legittimamente la parola nello spazio pubblico per via della propria condizione, che si trattasse dell’appartenenza all’universo militare al centro di Dîner avec Bonaparte: revolte fédéraliste, guerre et politique dans le Souper de Beaucaire, di Antonino De Francesco, o del sesso femminile come nel caso di studio analizzato da Anne de Mathan e relativo ai fortunati romanzi di Claire de Duras degli anni ’20 dell’Ottocento [12]. A variare, a seconda del contesto in cui tali opere vedevano la luce così come delle loro ambizioni, era la specificità e l’immediatezza dei loro scopi politici.

Il dialogo pubblicato a proprie spese dal giovane Bonaparte alla fine dell’estate 1793 e preso in esame da De Francesco si muoveva per esempio su due livelli. Da un lato serviva sia a mettere in rilievo le competenze tecnico-militari del suo ambizioso autore – il cui alter-ego letterario spiegava appunto ai commensali perché la rivolta federalista di Marsiglia non avesse speranza di prevalere contro l’esercito repubblicano – sia a provare la sua lealtà politica, affinché il ministro della guerra Jean-Baptiste Bouchotte gli concedesse una promozione, come puntualmente sarebbe avvenuto. Dall’altro, intendeva suggerire un parallelismo fra il separatismo di Marsiglia e quello della Corsica guidata da Pasquale Paoli, ormai divenuto il nemico per eccellenza della famiglia Bonaparte: il vero nodo in una prospettiva di medio termine era insomma la riconquista dell’isola, un’operazione impossibile senza aver prima ricondotto all’ordine il Midi[13].

Più sfumato, ma non per questo meno percepibile, era il contenuto politico delle altre opere. Il romanzo La dot de Suzette di Joseph Fiévée (1798), un realista prudente e moderato destinato a una bella carriera nell’amministrazione al tempo dell’Impero, mascherava dietro gli intrighi sentimentali vere e proprie lezioni in cui morale e dottrina politica si mescolavano in vista di una restaurazione societale ancora tutta da inventare[14]. Un ruolo cruciale in questo esperimento di immaginazione di una società contro-rivoluzionaria era attribuito alle donne, protagoniste del libro e sue lettrici privilegiate: proprio perché relegate al di fuori della sfera pubblica, esse erano chiamate ad agire come architravi di nuovi opzioni politiche interclassiste, basate sulla famiglia, sull’onore, sulla proprietà e sulla carità individuale[15]. La precarietà di qualunque risultato elettorale e le limitazioni imposte alla stampa periodica, insomma, spinsero Fiévée ad affidarsi ad un romanzo per poter esercitare un’influenza sull’opinione pubblica penetrando nella sfera privata. Analogamente, la bosinata in sestine di endecasillabi nota sotto il titolo di Prineide, attribuita a Tommaso Grossi ma probabilmente composta nei primi mesi del 1816 con il concorso di Carlo Porta, non si limitava affatto a richiamare alla memoria il linciaggio del ministro delle finanze del regno italico Giuseppe Prina in chiave satirica. Il cuore dell’operetta, apparsa quando era ormai tramontata la speranza che la Lombardia potesse godere di una qualche autonomia, era invece costituito dall’invettiva contro la nobiltà, accusata non solo di aver abbandonato i propositi di indipendenza per accomodarsi ad un regime improntato alla sopraffazione, ma anche di voler ristabilire il primato del sangue sul merito[16]. La bosinata, lungi dal riferirsi soltanto al passato, parlava soprattutto del presente (tanto da esser conosciuta anche con il titolo El dì d’incoeu) ed esprimeva un crescente disagio sociale da parte di quegli ex-funzionari e di quei professionisti liberali che avevano costituito il nerbo del Regno d’Italia napoleonico.

È complesso misurare l’impatto di simili prodotti letterari sul pubblico dei lettori e sul loro immaginario politico. Nel caso della Prineide, è certo che essa conobbe un gran numero di varianti e una notevole popolarità malgrado la diffusione clandestina, come attestato dalla stessa polizia austriaca. Giulia Delogu, nel suo Veleni e “contravveleni” poetici: il racconto della rivoluzione in Italia, ha messo in rilievo l’esistenza di un gran numero di raccolte manoscritte di testi in versi su fasi ed eventi della Rivoluzione, ancora esistenti in biblioteche e archivi della penisola. Per i loro creatori esse rappresentavano una modalità ideale per comporre un racconto personalizzato della storia, selezionando e combinando a proprio piacimento temi ed autori, nel tentativo di penetrare nella sfera emotiva e sentimentale dei protagonisti della Rivoluzione. Appare evidente, quindi, che l’audience delle opere letterarie variamente legate al racconto del venticinquennio 1789-1815 non era affatto passiva, né accettava supinamente tutte le narrazioni proposte. Tuttavia, quando queste erano baciate dal successo, contribuivano a orientare i lettori attraverso il corso degli eventi e a suscitare simpatia o avversione per attori storici o opzioni politiche. Nel corso del XIX secolo, poi, non era infrequente che si verificasse un vero e proprio cortocircuito: récits che mescolavano verosimiglianza, omissioni, e vere e proprie invenzioni poterono essere impiegati acriticamente – a distanza di alcuni decenni – per la ricostruzione storica del periodo rivoluzionario stesso, come dimostrato da Saori Nagasaka (La chouannerie normande relatée dans les récits des chouans: quel décalage entre l’idéal et la réalité?) confrontando il contenuto delle memorie dello chouan Michelot Moulin (1771-1839) con una delle prime opere storiografiche sulla chouannerie normanna, Louis de Frotté et les insurrections normandes, 1793-1832 di Louis de la Sicotière.

Lo studio di come la storia della Rivoluzione sia stata scritta “a caldo” in molteplici forme (romanzi, lettere anonime, dialoghi, raccolte poetiche, memorie), con quali meccanismi retorici ed interpretativi (parallelismi, analogie, prefigurazioni, ecc.) e con quali obiettivi si conferma così un percorso ricco di potenzialità per penetrare “dal basso” nel vissuto degli attori storici, nei loro tentativi di attribuire un senso agli avvenimenti e d’imprimere una precisa direzione ad eventi sfuggenti quali erano quelli di un denso percorso rivoluzionario. Al contempo, proprio la grande varietà delle fonti a disposizione rivela la necessità di padroneggiare il contesto della loro produzione e circolazione e la singola specificità di ciascuna di esse. Questa precauzione appare indispensabile non solo per non cadere in un’acritica accettazione di quegli stessi récits, spesso disseminati di elementi inventati per le più disparate ragioni (intenti disinformativi, volontà di alludere a possibili alternative storico-politiche, stigmatizzazione degli avversari, necessità di occultare elementi compromettenti o di esercitare una sorta di soft power politico-ideologico attraverso i canali della letteratura, ecc.); ma anche e soprattutto per distinguere sottilmente quale regime di storicità essi contribuirono a tratteggiare e quali obiettivi – singolari e di corto respiro, o plurali e di medio-lungo termine – essi si proponevano di raggiungere.

Marco Emanuele Omes


[1] Da quattro anni, inoltre, Serna anima un seminario destinato a studenti e dottorandi intitolato En faisant, en écrivant la Révolution, il cui scopo è indagare la «écriture immédiate de la Révolution» come mezzo non solo per decifrare la «construction du réel» da parte suoi agenti storici ma anche e soprattutto per comprendere il loro «positionnement […] dans le réel» (così nella presentazione sul sito dell’IHMC-IHRF).

[2] Un primo tentativo di analisi dei récits delle rivoluzioni del Lungo Ottocento francese è costituito da Ph. Bourdin (dir.), La Révolution 1789-1871. Ecriture d’une histoire immédiate, Clermont-Ferrand, Presses Universitaires Blaise-Pascal, 2008. Ad esso sono seguiti, a titolo d’esempio, L. Chavanette e F. Dendena (dir.), Dossier L’historien vivant (1789-1830), in «La Révolution française», 10 (2016); D. Di Bartolomeo, Una storia in tempo reale. La Rivoluzione francese raccontata dai suoi protagonisti (1789-1796), Canterano, Aracne, 2016; A. De Francesco, Tutti i volti di Marianna. Una storia delle storie della Rivoluzione francese, Roma, Donzelli, 2019, in particolare il cap. 1; F. Benigno, D. Di Bartolomeo, Napoleone deve morire. L’idea di ripetizione storica nella Rivoluzione francese, Roma, Salerno Editrice, 2020; S. Aprile e H. Leuwers (dir.), Révolutions et relectures du passé, XVIIIe-XXe siècle, Villeneuve d’Ascq, Presses Universitaires du Septentrion, 2023. Naturalmente anche in precedenza non erano mancati studi sul rapporto fra la storia della Rivoluzione e la scrittura della storia a ridosso degli eventi, a cominciare da M. Ozouf, De thermidor à brumaire: le discours de la Révolution sur elle-même, in «Revue historique», 493 (1970), pp. 31-66 fino ad arrivare ai lavori di S. Luzzatto sulla memorialistica dei convenzionali e a quelli di P. Serna sul racconto del colpo di stato di Bonaparte nella prima fase del Consolato (v. per esempio Refaire l’histoire, écrire l’histoire, ou comment raconter le 18 brumaire entre 1800 et 1802, in «Cahiers d’histoire», 77 (1999), pp. 101-120). Solo in anni recenti, tuttavia, si è cominciato ad interrogarsi sulla costruzione dei récits nella fase precedente a Termidoro e mettendoli in relazione con parallelismi storici, analogie e predizioni, all’insegna di una riflessione critica ispirata dal celebre studio di F. Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expérience du temps, Paris, Seuil, 2003.

[3] Alcune informazioni sull’attività giornalistica di Claude Tanguy de la Boissière e sui suoi tentativi di screditare la missione del ministro plenipotenziario E.-C. Genet in G. F. Lundy, Early Saint Domingan migration to America and the attraction of Philadelphia, in «The Journal of Haitian Studies», 12 (2006), n. 1, pp. 76-94; e J. E. Taylor, Misinformation nation. Foreign news and the politics of truth in Revolutionary America, Baltimore, John Hopkins University Press, 2022.

[4] Di Bartolomeo, Una storia in tempo reale, cit., pp. 17-18.

[5] C. Jouhard, Écriture historique, action et immédiateté, in La Révolution 1789-1871, cit., pp. 37-56 (qui p. 45).

[6] Hartog, Régimes d’historicité, cit., p. 254.

[7] Di Bartolomeo, Lo specchio infranto. «Regimi di storicità» e uso della storia secondo François Hartog, in «Storica», 49 (2011), pp. 63-94 (citazione ap. 81). Si veda anche S. Mellon, The political uses of history. A study of historians in the French Restoration, Stanford, Stanford University Press, 1958.

[8] Per una sintesi degli assi di ricerca privilegiati dalla storiografia in occasione del bicentenario del Triennio liberale spagnolo, v. I. Frasquet, P. Rújula, A. París (eds.), El Trienio liberal (1820-1823). Balance y perspectivas, Zaragoza, Prensas de la Universidad de Zaragoza, 2022.

[9] Lo studio di riferimento in proposito è ancora J. Tulard, L’Anti-Napoléon: la légende noire de l’Empereur, Paris, Julliard, 1965. Il fenomeno ebbe una certa imponenza anche nella penisola italiana, almeno nel biennio 1814-1815: Girardi calcola che 112 opere volte a denunciare l’illegittimità ed i vizi di Napoleone, dipinto talvolta con tratti demoniaci, furono pubblicate nell’anno della prima abdicazione, e 35 in quello successivo.

[10] A. Lignereux, Les impériaux. Administrer et habiter l’Europe de Napoléon, Paris, Fayard, 2019.

[11] G. Tatasciore, Briganti d’Italia. Storia di un immaginario romantico, Roma, Viella, 2022.

[12] Su questa autrice, J. Balcou, Fiction et politique chez Madame de Duras, in «Revue d’Histoire littéraire de la France», 117 (2017), n. 3, pp. 605-614.

[13] Lo stato di guerra e la rivolta federalista davano senz’altro un inedito peso politico all’esercito. A queste date, tuttavia, l’iniziativa era ancora nelle mani del governo civile, tanto che era fondamentale per gli ufficiali di più alto grado godere della fiducia delle istituzioni parigine. La centralità dell’armée in chiave politica sottolineata da Bonaparte non implicava il ribaltamento della primazia del politico sul militare, che avvenne più tardi, durante la fase del Direttorio: v. W. Kruse, La formation du discours militariste sous le Directoire, in «Archives Historiques de la Révolution Française», 360 (2010), pp. 77-102.

[14] G. Gemgembre, J. Goldzink, La Dot de Suzette, ou le roman discret de l’émigration, in C. Jacquier, F. Lotterie, C. Seth (dir.), Destins romanesques de l’émigration, Paris, Desjonquères, 2007, pp. 169-180.

[15] G. Lafrance, Qui perd gagne. Imaginaire du don et Révolution française, Montréal, Presses Universitaires de Montréal, 2008, pp. 161-230.

[16] Sulla revanche nobiliare dei primi anni della Restaurazione, v. M. Meriggi, Liberalismo o libertà dei ceti? Costituzionalismo lombardo agli albori della Restaurazione, in «Studi Storici», 2 (1981), pp. 315-343.