La storia in digitale: teorie e metodologie, a cura di Deborah Paci, Edizioni Unicopli, Milano, 2019

Il testo è una raccolta di saggi, curata dalla docente di storia digitale Deborah Paci (Università Ca’ Foscari), che gravita attorno al grande tema del mutamento della storia dopo la rivoluzione digitale. Il volume presenta cinque sezioni che analizzano da diverse angolazioni la questione (si parla di tecnologie GIS, di archivi digitali, di nuovi metodi di insegnamento ecc.) e si conclude con Bussole, dedicata all’approfondimento di alcuni termini specifici delle digital humanities. In generale, l’opera si presenta come un testo ricco di indicazioni specifiche per il mestiere dello storico digitale, che si confronta con una serie di questioni tecniche le quali, talvolta, risultano piuttosto complesse. Il fil rouge del testo è chiaramente quello di mostrare al lettore una parte del ventaglio di prospettive che il digitale offre e come nella pratica gli storici possono usufruirne. Gli autori dei diversi interventi (per la maggior parte docenti di discipline umanistiche che nei loro percorsi accademici si sono dedicati con passione al tema della storia digitale e delle digital humanities) hanno sfruttato per le loro analisi in gran parte fonti bibliografiche e anche immagini di approfondimento (specialmente nella seconda sezione dedicata al rapporto tra la storia e lo spazio).

Sin dal principio, la prefazione mette in guardia i lettori rispetto all’odierno habitat digitale, un ambiente che ormai circonda sia le nostre vite lavorative accademiche che quelle personali: è infatti diventato impossibile pensare storia senza il digitale. Serge Noiret si domanda a questo proposito se fare storia con i pixel ha cambiato la nostra umanizzazione della storia.

Nella sua sezione iniziale il testo prova proprio a rispondere alla domanda posta nella prefazione, ovvero prende in esame i cambiamenti che hanno interessato il mestiere dello storico dopo la rivoluzione digitale e anche le critiche che vengono poste alla storia digitale. Si tratta di una sezione meno tecnica rispetto quelle successive, in cui gli autori lasciano spazio a spiegazioni più “umanistiche”. Tra gli aspetti da considerare in principio sicuramente troviamo la questione dell’update, ovvero del costante aggiornamento a cui siamo sottoposti. Lo storico, come l’uomo comune, deve addentrarsi nella situazione e cercare di capire come questa ha modificato la nostra concezione del presente e del passato: aggiornare significa portare un contenuto nuovo o conservare quello originale? Il digitale, inoltre, sicuramente costringe a pensare ad una nuova forma di temporizzazione e a un nuovo rapporto tra passato-presente-futuro. Infatti, è ora possibile conservare qualsiasi documento nelle sue possibili forme ma bisogna prestare attenzione alla dilatazione di tempo e di ricordi, poiché c’è il rischio di perdere il nostro diritto all’oblio e la nostra umanità in generale.

Successivamente Anaclet Pons illustra i cambiamenti pratici che interessano la storia digitale, in primis quelli prettamente filologici: ogni qual volta che nel corso della storia l’uomo ha cambiato supporto documentario è cambiato in parte anche il testo, che si è adeguato al nuovo strumento. Così anche oggi lo storico che si approccia a una nuova ricerca è consapevole che il suo modo di leggere e il documento si sono in qualche modo modificati. Questa differente ermeneutica è tra le principali critiche poste alla storia digitale. Si tratta in ogni caso di aspetti con i quali al giorno d’oggi lo storico deve convivere perché, come riconosce Pons, ormai non si possono ignorare gli strumenti digitali e di conseguenza dobbiamo prendere atto che esistono solamente storici digitali con differenti sfumature.

La curatrice del testo, Deborah Paci, nel corso del suo intervento tratta in generale la storia e lo sviluppo della disciplina ombrello delle digital humanities (passa quindi in rassegna le opinioni di Schnapp, Rosenzweig, Floridi e altri), arrivando alla conclusione che big data e thick data devono collaborare al fine di creare contenuti completi e strutturati, una collaborazione che può comprendere anche il grande pubblico non accademico. La studiosa utilizza un esempio per mostrare la profondità che questi ultimi possono raggiungere: nel 2017 il progetto “Making Sense” ha fatto istallare dei dispositivi di controllo per l’inquinamento acustico all’interno e all’esterno delle case a Plaza del Sol a Barcellona scoprendo che superava i limiti consentiti. Sono stati in questo caso proprio i dati densi a illustrare il contesto mentre i big data di solito si fermano in superficie.

Il volume prosegue soffermandosi sulle modalità in cui il digitale semplifica il rapporto tra storia e spazio: un esempio calzante è quello delle tecnologie GIS (Geographic Information System). Compito dello storico in questo contesto è quello di estrapolare dati, per integrarli in un secondo momento in questo sistema GIS e infine passare alle query. Alcuni esempi di progetti di Historical GIS sono il “progetto Nibby”oppure il“Sistema Informativo Toponomastica”. Gli Historical GIS ci permettono sia di salvare dati e creare delle ricerche nuove sia di porre nello spazio i risultati di ricerche già effettuate. I GIS sono diventati molto importanti per la digital history, e la sempre maggiore semplificazione degli strumenti necessari per la creazione di history map ha permesso una loro maggiore diffusione. Le history map sono inoltre molto utili alla Public history poiché fanno sì che la storia esca un po’ di più dagli atenei per avvicinarsi al grande pubblico.

Gli studiosi che si occupano di questi capitoli espongono con precisione i diversi passaggi necessari alla creazione di queste mappe, entrano nel dettaglio e fanno presente, ad esempio, il ruolo di primissimo piano rivestito dal database e dalla raccolta di dati e l’ampio ventaglio di possibilità che offre la cartografia in generale, una disciplina che si esprime con un linguaggio molto fluido e diversificato; il tutto corredato da immagini che accompagnano il lettore nella comprensione di questi, non sempre facili, passaggi tecnici.

Un altro possibile utilizzo del digitale nel lavoro dello storico è quello dato dallo sfruttamento delle nuove tecnologie per archiviare documenti e fonti. La questione dell’archiviazione digitale è qualcosa che dovrebbe interessare tutti gli specialisti del passato. Gli storici, in particolar modo, devono essere coinvolti per partecipare alla selezione del materiale da conservare. Ovviamente si presenta immediatamente la difficoltà data dall’enorme quantità di materiale disponibile, per questo gli enti archivistici selezionano i siti che “meritano” di essere salvati rispetto quelli destinati all’oblio. Una tra le tante problematiche è costituita dal deep web, ovvero quella parte di web non indicizzata e difficile da raggiungere, senza tralasciare il problema della proprietà intellettuale per i contenuti gratuiti. Gli archivi digitali nella pratica modificano la ricerca dello storico e lo costringono a mettere da parte la sua predilezione per il cartaceo per fare spazio ad alcuni indubbi vantaggi (la possibilità di avere le fonti primarie digitalizzate è un vantaggio indescrivibile). Della raccolta e archiviazione di documenti tendenzialmente se ne occupano gli enti archivistici privati, ma sono anche numerosi i servizi di archivio web nazionali, e questi ultimi sono di solito maggiormente aperti alla collaborazione con gli studiosi.

Oltre alla possibilità di archiviare documenti e fonti di vario tipo il digitale va incontro allo storico aiutandolo nelle ricerche statistiche e prettamente quantitative. I big data aiutano gli studiosi ad ordinare, collegare e integrare risorse storiche e sono diventati ormai essenziali per alcune tipologie di storie come quella economica e demografica che sfruttano usualmente dati numerici per mettere a confronto più situazioni (la storia demografica può anche avvantaggiarsi delle tecnologie GIS per una ricerca più completa).

L’opera, dopo aver illustrato queste collaborazioni tra digitale e storia, prosegue presentando altri esempi più informali, come l’utilizzo da parte degli studiosi di blog online per confrontarsi tra accademici ma anche per creare un dialogo con il grande pubblico interessato alla storia. La presenza e il desiderio di partecipazione del pubblico non accademico è un tema che torna a più riprese nel corso dell’opera. I diversi interventi cercano tuttavia di mettere in guardia sui possibili pericoli derivanti dalla loro partecipazione alla narrazione storica (capita spesso che le informazioni indicate su blog o simili non siano verificabili tramite fonti), ma allo stesso tempo spiegano che non si possono escludere dalla discussione storica e illustrano metodi per fra fronte agli eventuali rischi.

Gli autori trattano anche di ipertestualità e testi digitali, aspetti che le digital humanities toccano da anni e che sono ancora al giorno d’oggi presenti nei dibattiti. Quando si discute di ipertestualità, gli studiosi cercano di indagare se realmente i collegamenti ipertestuali (che possono essere sia digitali sia “analogici”) sono più utili alla comprensione dei testi. Jacopo Bassi, che tratta il tema dei testi digitali, si mostra ben consapevole della situazione in cui si trova l’Italia rispetto l’argomento e prova a illustrarla brevemente: il testo digitale non è propriamente una novità, se ne parla in Italia da almeno vent’anni, però non è stato ancora completamente sdoganato. Nelle scuole, infatti, non è usuale utilizzare il testo digitale, la quotidianità è ancora rappresentata dal testo cartaceo, tutt’al più accompagnato dal CD al suo interno che permette un ampliamento di alcune funzioni. I docenti, che sono coloro che selezionano il libro di testo da utilizzare, sono forse ancora troppo abituati a considerare come unici contenuti digitali quelli relativi alla casa editrice che suggerisce loro qualche metodo complementare di insegnamento, piuttosto che uno strumento utile agli alunni. Bassi spiega che uno dei problemi è costituito dalla costruzione del testo digitale stesso, ancora studiato e preparato come una sorta di copia di quello cartaceo. Il problema rimane ancora aperto nonostante le iniziative prese dallo Stato sottoforma di legislazione, l’obiettivo è arrivare ad ottenere libri di testo digitali interdisciplinari e ipertestuali che offrano un’esperienza di studio più efficace e inclusiva.

Giorgia Lommi