Beatrice Del Bo, L’età del lume. Una storia della luce nel Medioevo, il Mulino, Bologna, 2023

Lumi, candele, ceri, lucerne, lampade, torce, bracieri e lanterne. Per quanto in molti, a partire dagli intellettuali umanisti, abbiano etichettato i secoli medievali come una “età buia”, essa non lo fu per nulla. La trattazione si apre con una frase che è ormai diventata un mantra per gli storici del Medioevo, ma che in questa occasione si illumina di un nuovo significato: la vita dei nostri antenati non terminava ogni giorno al calar del sole per poi riprendere con l’alba successiva. L’inizio della notte coincideva con l’accendersi delle luci di «fiaccole e candele, torce e lanterne», e le città si animavano in maniera differente rispetto al giorno.

Beatrice Del Bo è professoressa associata di Storia Medievale presso l’Università degli Studi di Milano, dove insegna Storia Economica e Sociale del Medioevo e Didattica della storia. Il suo proposito in questo volume è indagare gli aspetti materiali della luce artificiale, nei suoi utilizzi mondani e profani, in occasioni sia pubbliche che private. Tramite l’utilizzo di molti documenti e testimonianze eterogenee, spaziando dalla letteratura alle raccolte statutarie, dai testamenti alle cronache, e persino a piccole e grandi rappresentazioni pittoriche, l’autrice riesce efficacemente a riprodurre quello che definisce il «paesaggio luminoso artificiale» dell’Italia centro-settentrionale tra la fine del XIII e gli inizi del XVI secolo. Per di più, anche dal lato narrativo la lettura risulta particolarmente gradevole, grazie all’abilità dell’autrice di arricchire i risultati della ricerca alternando l’analisi alla contestualizzazione e all’inserimento di aneddoti sempre tratti dalle fonti.

Ogni capitolo si concentra su un aspetto piuttosto generale dell’illuminazione, analizzandolo poi nel dettaglio. Si parte con una riflessione sul lessico utilizzato per parlare sia della luce che del buio, ma anche su aspetti più filosofici, chiarendo le simbologie che si celano dietro alle varie parole analizzate. “Fuoco” come sinonimo di passione, “luce” come segno della presenza di Dio, “lume” come simbolo di razionalità: mediante l’approfondimento delle ragioni dell’esistenza di certe analogie normalmente date per scontate, l’autrice costruisce le basi per la sua indagine materiale, senza però tralasciare importanti aspetti culturali legati all’illuminazione.

Del Bo passa poi al lato economico della luce, analizzando dunque prezzi e contesti di utilizzo delle candele di cera o di sego, e di altri oggetti usati per illuminare e non solo: la cera era utilizzata anche nella pittura. Di interesse per l’indagine sono anche le diverse forme, misure, pesi e colori differenti che le candele potevano presentare, a seconda della loro destinazione e di chi ne faceva richiesta. L’autrice si sofferma inoltre sulle modalità e sulle regolamentazioni relative alla produzione e vendita di questi oggetti da parte delle corporazioni presso le botteghe di candelari, apothecarii e venditori di salsicce.

Grande attenzione poi è dedicata ai particolari utilizzi della luce, in ambiente sia sacro che profano, senza mai separare gli aspetti culturali e astratti da quelli più pratici e legati ai mezzi e alla liquidità di cui disponevano le singole istituzioni o privati cittadini. La luce infatti era molto importante nelle cerimonie religiose, per via dell’ovvio collegamento tra la luce e la divinità: tracce di ciò si notano ancora oggi, soprattutto nella presenza di un «luminare accenso a segnalare il Corpo di Cristo», pratica che Del Bo vede attestarsi già nel 1460. Ogni ricorrenza aveva una specifica dotazione di ceri e altre luminarie, ognuna con un preciso valore simbolico.

Processioni, celebrazioni, cerimonie pubbliche e private, provvedimenti del Comune e questioni di sicurezza, qualsiasi esigenza doveva prima o poi venire a scontrarsi con problematiche legate all’illuminazione, come testimoniano moltissimi documenti e fonti anche iconografiche (molte di queste rappresentazioni artistiche sono anche inserite all’interno del volume). Nella trattazione non mancano, ovviamente, vari esempi pratici, come quelli provenienti dal borgo di Saluzzo, in cui si è conservata la documentazione relativa alle volontà testamentarie di alcuni individui. Costoro, tra le altre cose, spiegano nel dettaglio anche come preparare la loro cerimonia funebre. Si va perciò dal testamento della marchesa di Saluzzo, che chiede a monaci e monache di cantare una messa ogni anno, tenendo ciascuno una candela accesa, a quelli di dottori, notai e ufficiali marchionali, che danno a loro volta indicazioni riguardo a differenti celebrazioni, specificando il tipo di illuminazione che avrebbero desiderato.

L’autrice conclude poi il corpo principale del volume con una riflessione di genere, indagando il ruolo femminile nella storia della luce, anche in questo caso sotto i profili sia culturale che economico. Del Bo nota, infatti, come nel corso dei secoli presi in esame si assiste a una timida ma crescente alfabetizzazione della popolazione femminile, che si riflette nell’iconografia. Ciò permette di concentrarsi sulle differenze di genere visibili chiaramente in come l’arte rappresenta questa pratica da parte di donne e uomini, e in base a quali diversi oggetti luminosi accompagnano entrambi nella lettura. L’autrice si sofferma poi sulla partecipazione delle donne sia al processo produttivo di candele e altri oggetti, sia al loro utilizzo, portando esempi provenienti anche da Francia e Spagna.

È infine impossibile non notare una certa circolarità nell’esposizione, che si apre e si chiude con una particolare attenzione al contesto linguistico. Infatti, dopo l’attenzione dedicata al lessico più generale nel primo capitolo, Del Bo scende nel dettaglio e inserisce al termine del volume un dettagliato glossario, che permette al lettore di cogliere le differenze più o meno sottili fra le oltre trenta diverse parole che definiscono gli altrettanti strumenti per illuminare, oltre a sintetizzare e approfondire certi aspetti analizzati anche nel corso del testo. Candela, candelabro, candeliere, candelotto e candeluzza: si tratta solo di alcune delle voci presenti nel glossario. Queste hanno una ovvia etimologia comune, ma rappresentano oggetti diversi, con diverse sfumature di significato. La comune candela, infatti, era accompagnata sempre dal proprio supporto, ed entrambi potevano avere forme, decorazioni e dimensioni differenti, a seconda dell’occasione o del luogo da illuminare. L’ultimo termine, per esempio, era spesso utilizzato come dispregiativo, per riferirsi a candele piccole e di scarso valore, probabilmente usate da chi non poteva (o non voleva) permettersi molto altro.

Luca Barbieri