Revolutions and Democracy in the Modern Age – Milano, novembre-dicembre 2023

Ciclo di seminari organizzato da Davide Cadeddu per il dottorato in Studi storici


Nel primo semestre dell’anno accademico in corso (2023-2024) si è tenuto il ciclo seminariale Revolutions and Democracy in the Modern Era, ideato e coordinato da Davide Cadeddu, docente di Storia delle dottrine politiche presso il nostro Dipartimento. La serie di cinque incontri ha permesso l’analisi di alcune opere internazionali di recente pubblicazione, tutte incentrate sui temi di democrazia e rivoluzione.

H. Dawson in dialogo con P. Rudan: Revolution and Democracy in the History of Feminism

Il ciclo è stato inaugurato l’8 novembre con il dialogo tra Hannah Dawson, reader in History of Political Thought al King’s College di Londra, e Paola Rudan, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna. Al centro dell’incontro la raccolta The Penguin Book of Feminist Writing, pubblicata da Penguin nel 2021 e curata da Dawson[1], la quale, esperta di teorie del linguaggio nella prima età moderna (con un interesse specifico per la natura, la politica e la morale nel pensiero di John Locke), si è sempre in parallelo occupata anche di storia di genere e del femminismo.

Il corposo volume (650 pp.) si configura come un’antologia di 116 scritti femministi che coprono un vasto arco temporale: il primo contributo è della poetessa italo-francese Christine De Pizan e risale al 1405, mentre l’ultimo è stato scritto nel 2020 dall’attivista britannica Lola Olufemi. La raccolta suggerisce, tra i numerosi stimoli, di porre in relazione i concetti di democrazia e rivoluzione con più di 600 anni di pensiero femminista, evidenziando la particolare sensibilità delle donne nel mettere in luce l’ipocrisia, la fragilità, i punti oscuri e persino i vicoli ciechi dei due termini.

Un calzante esempio, come ha ricordato Dawson prendendo la parola, è offerto dal pensiero di Mary Wollstonecraft (1759-1797), autrice nel 1792 di A Vindication of the Rights of Women: ella aderì con slancio e convinzione agli ideali democratici della Rivoluzione francese. Ben presto ne rimase tuttavia fortemente delusa, constatando il rifiuto della società post-rivoluzionaria di accogliere le richieste di emancipazione femminile[2]. Democrazia – insinuò quindi la filosofa inglese – si presenta come una categoria politica animata da sfaccettature divergenti: le donne, ma anche gli abitanti delle colonie, gli schiavi e le persone non proprietarie di alcun bene materiale, ne sono del tutto estromessi. Di conseguenza, nel reale significato della parola democrazia, è compreso in maniera tutt’altro che inconsistente anche il concetto di esclusione.

Se l’idea in sé di democrazia non è dunque sufficiente per conseguire l’emancipazione femminile, occorre imbastire una strada diversa, che da una prospettiva interna conduca all’auto-liberazione (“self-liberation”). Fu sempre Wollstonecraft, da questo punto di vista, a riflettere sull’istituto matrimoniale, vedendolo come un contratto sociale che segna l’oppressione della componente femminile e la dominazione da parte di quella maschile. Nel matrimonio la donna fa esperienza di “unfreedom” e “aliena potestas”, interiorizzando psicologicamente la precisa convinzione di essere inferiore all’uomo.

In tale contesto, inoltre, l’unico potere femminile è rappresentato dalla sessualità, avente a che fare esclusivamente con la bellezza di un corpo. Andando oltre la fisicità, per il marito non v’è altro: la donna non sarebbe, infatti, dotata di ragione. E quest’affermazione non è del tutto insensata, specie se si considera la condizione in cui la donna di fine Settecento vive: non ha accesso all’istruzione, che è la vera chiave per esercitare la ragione come capacità critica e, di conseguenza, per raggiungere la libertà mentale. La preclusione all’istruzione è, nel contratto matrimoniale, un elemento fondamentale: l’uomo sa che, una volta conseguita la libertà mentale, la donna cessa di essere prigioniera di ogni vincolo psicologico, diventando pienamente capace di auto-governarsi (“to self-govern”). Bene lo spiegò, quasi un secolo e mezzo più tardi (1929), Virginia Woolf (1882-1941) nel suo famoso saggio A Room of One’s Own[3]: «There is no gateno lockno bolt that you can set upon the freedom of my mind». Oltre all’istruzione, un tassello decisivo verso l’emancipazione è rappresentato dal lavoro fuori dalle mura domestiche. Il tema fu molto caro all’intellettuale russa Emma Goldman (1869-1940): l’attività lavorativa avrebbe consentito alla donna di prendere le distanze dal ruolo esclusivo e psicologicamente opprimente di «angel of the house»[4].

Paola Rudan, intervenuta dopo la curatrice, ha segnalato l’importanza dell’antologia, che permette di leggere il femminismo come storia di un conflitto persistente e vivo tra le donne e le diverse forme di potere rigorosamente maschili che si sono nel tempo susseguite. Tra queste campeggia anche la democrazia, rispetto alla quale il pensiero femminista non solo si pone in modo critico, ma prospetta migliorie in grado di perfezionare il concetto stesso. Democrazia e rivoluzione, in definitiva, non sono un concetto, evento o accadimento: rappresentano, al contrario, un processo, alimentato collettivamente e in modo multidirezionale.

R. Bourke in dialogo con G. Cesarale e S. Bacin: Hegel’s World Revolutions

Mercoledì 15 novembre si è tenuto il secondo incontro, il cui ospite è stato Richard Bourke, docente di History of Political Thought presso l’Università di Cambridge, che ha dialogato con Giorgio Cesarale (docente di Filosofia politica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia) e Stefano Bacin (storico della filosofia presso il nostro Ateneo). Al centro del dialogo è stato posto il recente lavoro del professor Bourke, Hegel’s World Revolutions (Princeton University Press, 2023), che l’autore ha provveduto sinteticamente a presentare.

La personalità “rivoluzionaria” di Hegel è stata immediatamente posta al centro dell’attenzione dall’oratore principale, il quale ha sottolineato lo straordinario contributo del filosofo tedesco allo sviluppo del dibattito non solo filosofico ma anche storico; proprio questo ultimo aspetto, secondo Bourke, è stato preso adeguatamente in esame solo di recente, essendo Hegel un autore considerato da una prospettiva prettamente filosofica piuttosto che storica.

L’approccio di Hegel allo studio della storia è stato “rivoluzionario”, nell’ottica dell’autore, poiché ha interpretato i mutamenti storici secondo una prospettiva di ampio respiro, nel contesto della storia del mondo, secondo una visuale trans-temporale e intercontinentale. Hegel ha preso in considerazione la storia umana focalizzandosi sulle sue conquiste nel corso dei secoli, ponendo l’accento sulla nascita dei valori moderni, i quali egli colloca al termine di un lungo percorso di civilizzazione. L’idea di “progresso” è stata analizzata dal filosofo tedesco prendendo le mosse dall’antica Cina, India, Persia, Egitto, passando poi attraverso la Storia della Grecia e di Roma, per giungere sino alla formazione della moderna società europea. Hegel individua delle “rotture” a livello politico e religioso, come ad esempio la diffusione del cristianesimo, e qui inizia ad emergere uno dei nodi centrali della ricerca di Bourke.

L’autore ricorda come Hegel avesse maturato una visione negativa del cristianesimo poiché sfociato in una religione dell’“autoritarismo politico”: nel corso della storia era possibile quindi individuare dei “contrattempi” storico mondiali, tra i quali erano annoverabili la Riforma e la Rivoluzione francese. È pertanto sul nesso “rottura-rivoluzione” che viene posto l’accento, chiarendo un aspetto fondamentale: le rivoluzioni e le rotture che queste portano con sé non sono dei successi cumulativi, ma una serie di conseguenti fallimenti. Bourke chiarisce come la storia umana secondo Hegel coincida con una storia di sacrificio, in cui si verificano sì cambiamenti radicali che determinano un avanzamento e un miglioramento della condizione umana, ma come tali successi rimangano parziali, monchi e imperfetti, i quali non sono poi totalmente immuni dal pericolo di essere improvvisamente perduti.

Concluso l’intervento dell’autore, è stato letto un contributo del professor Cesarale, il quale ha attribuito al volume di Bourke il merito dell’analisi approfondita del concetto hegeliano di “transizione”. La pur ampia letteratura critica su Hegel non aveva infatti mai preso debitamente in considerazione tale concetto. Bourke lo ha fatto con grande acume, associando la categoria di “transizione” a quella di “dialetticità”, la quale percorre per intero il pensiero di Hegel. Una “transizione dialettica” è un fenomeno rivoluzionario che non si connota solo sul piano sociale (introducendo nuove modalità di integrazione e organizzazione sociale), ma anche e soprattutto sui piani politico e spirituale. Il cambiamento sociale rappresenta la sostanza di una rivoluzione: sostanza che riceve, tuttavia, una precisa “direzione dialettica” dettata da elementi politici e spirituali. Per esempio, la nascita della “società civile” dell’Ottocento non sarebbe stata possibile, nell’ottica hegeliana, senza eventi quali la nascita del cristianesimo, la riforma protestante, la rivoluzione scientifica e la Rivoluzione francese.

L’incontro è poi proseguito con un intervento del professor Stefano Bacin, il quale ha osservato come Hegel sia stato spesso letto in continuità con il pensiero di Immanuel Kant, sottolineando allo stesso tempo come una differenza fondamentale che separa i due autori sia la diversa modalità dei due autori di individuare le “rotture” a livello storico. Ciò che contraddistingue il pensiero hegeliano è la visione della “rivoluzione”: il professore ha infatti affermato che per Hegel le rivoluzioni sono tutte “uguali” tra loro. Hegel ha pertanto maturato una concezione della “rivoluzione” come un processo continuo, omogeneo, che implica delle “rotture” e dei cambiamenti non solo nella dimensione logica, ma anche nella dimensione del reale.

Nelle battute finali dell’incontro è stato preso invece in considerazione come è stato recepito il pensiero hegeliano nel corso della storia, passando dal dibattito che questo ha suscitato nel corso degli anni Quaranta al criticismo a cui è stato sottoposto a partire dagli anni Sessanta del Novecento.

S. Kapila in dialogo con T. Bobbio: Violent Fraternity: Indian Political Thought in the Global Age

Il terzo incontro, tenutosi il 22 novembre, ha visto dialogare Shruti Kapila, professoressa di History and Politics presso l’Università di Cambridge, con Tommaso Bobbio, docente di Storia e culture dell’India presso l’Università di Torino, intorno al volume di Kapila Violent Fraternity: Indian Political Thought in the Global Age, pubblicato nel 2021 da Princeton University Press.

L’autrice ha esordito affermando che il testo è fondato su alcuni semplici, eppure spesso dimenticati, presupposti: l’India è la più grande repubblica e democrazia del mondo; è una nazione decisamente disomogenea, in cui si parlano più di 20 lingue e si professano numerose religioni; si tratta infine della prima colonia, seconda solo agli USA, resasi indipendente dall’impero britannico (1947). Tenendo ben salde queste premesse, Kapila si è chiesta quali idee abbiano permeato la rivoluzione indiana. Un tentativo di risposta, intorno al quale è stato costruito il libro, risiede nell’analisi dei più influenti attori politici del subcontinente. È stato precisato che, rispetto al mondo occidentale, l’India non ha una tradizione filosofica ben definita: non esistendo divisioni significative tra l’esercizio filosofico e quello politico, risulta piuttosto complessa la distinzione netta tra soggetto filosofico e politico. Nella fattispecie, i politici esaminati nel volume (si ricordano Gandhi, Iqbal, Ambedkar, Savarkar, Tilak, Dayal e Patel) meritano di essere studiati anche e soprattutto come pensatori e filosofi, poiché le loro idee hanno rappresentato il vero nucleo attorno al quale si è poi concretizzata la rivoluzione[5].

Per il pensiero politico indiano, una fase decisiva è rappresentata dalla cosiddetta “Indian Age”, compresa tra il 1908 (anno del fallimento del primo organico movimento anticoloniale, lo “Swadeshi”) e il 1947, in cui diversi attori fornirono un nuovo vocabolario politico e ideologico, ben diverso da quello occidentale e basato sulla categoria della violenza come risultato duplice dell’inimicizia e della fraternità. Furono Tilak e Gandhi, in particolare, a rifiutare il concetto prettamente europeo di “stato”, visto come fondamento della vita politica, basato sull’interesse personale e detentore del monopolio della violenza. In ottica antistatalista, entrambi rivalutarono il concetto occidentale di violenza, concependo quest’ultima non più come “a matter of state”, bensì come una capacità individuale e molto intima, che risiede alla base di un nuovo modo di concepire la politica.

La natura intima della violenza portò inevitabilmente a ripensare la categoria di «inimicizia» (“enmity”). Nel pensiero occidentale il nemico è una figura esterna, per lo più straniera. Al contrario i pensatori indiani dimostrarono che l’unico potenziale nemico è nostro fratello[6]. Inimicizia e fraternità vennero così poste per la prima volta sullo stesso piano: l’inimicizia può essere fraterna e la formazione della fraternità può passare attraverso eventi di dirompente violenza. In ciò, la violenza mostra la sua possibile reversibilità: porta allo scontro, ma è anche fonte di pace e di nuove forme di fratellanza. Un esempio è dato dall’assassinio di Gandhi nel 1948, che portò a una significativa amnistia in tutta la nazione. Il parricidio del padre della patria costituì un momento emblematico del nuovo tipo di fraternità: la “violent fraternity”[7].

Tommaso Bobbio ha poi preso la parola soffermandosi sul tema del nazionalismo, che acquisisce un ruolo di primo piano nel pensiero politico indiano, sottolineando come tale tematica si leghi necessariamente alla disomogeneità culturale, linguistica e religiosa di una realtà come l’India. In particolar modo è stato fatto notare come la riflessione politica indiana dedichi un evidente primato al “processo rivoluzionario”, all’atto violento per mezzo del quale si intende giungere ad un abbattimento delle istituzioni sociali e politiche coloniali portatrici di oppressione; centralità che non viene invece riservata alla riflessione in merito all’organizzazione della nuova realtà politica che sarebbe dovuta sorgere dalle ceneri della rivoluzione. Il professore ha inoltre ricordato come lo stesso cinema indiano abbia dedicato attenzione a questo importante periodo della storia dell’India, citando un film del 2022 e ambientato proprio nel periodo preso in esame da Violent Fraternity ed intitolato RRR. Acronimo di “rise, roar, revolt”, dall’inglese “alzati, ruggisci, lotta”, RRR è un film a tema storico che segue le vicende di due fittizi rivoluzionari indiani del 1920 impegnati nella lotta contro l’impero britannico, ma che trae spunto da due figure storiche realmente esistite.

P. Kelly in dialogo con L. De Giorgi: War and Revolution in Lenin and Mao

Il quarto incontro, tenutosi mercoledì 29 novembre, ha visto la partecipazione del professor Paul Kelly, docente di Political Philosophy presso la London School of Economics and Political Science e della professoressa Laura De Giorgi, docente di Storia dell’Asia orientale e sud-orientale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Argomento cardine è stato il dialogo in merito al testo di Kelly Conflict, War and Revolution: The Problem of Politics in International Political Thought (LSE Press, 2022). Il testo si è prefissato lo scopo di esplorare il concetto di «violenza» nel pensiero politico dal mondo antico alla contemporaneità. Più precisamente nel corso dell’incontro l’oratore principale ha preso in considerazione i concetti di guerra e rivoluzione nel pensiero di Lenin e Mao Zedong, definiti come i più importanti rivoluzionari della storia, coloro che hanno attuato con successo la rivoluzione a livello pratico rispettivamente nell’ottobre del 1917 e nel 1949 ed entrambi alla testa di due dei maggiori partiti comunisti della storia. È stato inoltre sottolineato come, pur condividendo la comune matrice del pensiero marxista, vi siano delle differenze nel pensiero leninista e maoista.

Nel Che fare? pubblicato nel 1902, Lenin aveva delineato la propria teoria dell’organizzazione e della strategia del partito rivoluzionario del proletariato: egli riteneva che questo dovesse essere composto dall’avanguardia della classe operaia, al fine di dare vita ad un partito di “rivoluzionari di professione”, che si distinguesse per la propria organizzazione centralizzata e fosse militante e clandestino. Lenin legava poi la propria visione della rivoluzione alla riflessione sull’imperialismo, come testimoniato da un’altra sua celebre opera pubblicata nel 1916 Imperialismo: fase suprema del capitalismo. Secondo la visione leniniana era in questa fase che si manifestava con chiarezza il carattere antisociale e irrazionale del capitalismo, che attraverso l’imperialismo mirava a espandere i mercati e per mezzo della dominazione coloniale creava una struttura gerarchica.

Vi sono invece tre diversi elementi che vanno a caratterizzare la visione maoista della rivoluzione: il primato riconosciuto alla classe contadina, la linea di massa e la tattica della guerriglia.

L’importanza della classe contadina è l’elemento sul quale l’oratore principale si è immediatamente e principalmente soffermato, in quanto si è voluto porre l’accento sulla consapevolezza di Mao di dover giungere a una “sinizzazione” del marxismo, ovvero di “adattarlo” alle condizioni socioeconomiche della Cina, segnate da una profonda arretratezza, da una economia prevalentemente agricola e dalla dominazione dell’imperialismo occidentale. Mao comprese come fosse possibile sfruttare il “potenziale rivoluzionario” della classe contadina, che divenne l’artefice della Rivoluzione cinese, spezzando le catene dell’imperialismo e sconfiggendo l’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek. Fu inoltre grazie a questa consapevolezza che Mao fu in grado di espandere l’influenza del Partito comunista cinese (PCC) tra le masse rendendolo un partito “contadino”. Decisiva per il successo di Mao fu poi la tattica della guerriglia, ben espressa dal leader cinese in questa formula: «Il nemico avanza, ci ritiriamo; assaliamo gli accampamenti nemici; il nemico si affatica, lo attacchiamo; il nemico si ritira, lo inseguiamo».

È stato poi fatto notare come in Mao la rivoluzione sia concepita quale un processo che non conosce una reale fine in quanto le “contraddizioni” in seno alla società fanno sì che essa sia un processo “continuo”; come lo stesso professor Kelly ha osservato: «La rivoluzione è il fine della rivoluzione». I contadini e le campagne divengono, nella visione maoista, delle colonne portanti nel processo di realizzazione di una società socialista e di liberazione dalla dominazione coloniale: essi sono dotati di ciò che il docente ha definito una vera e propria “coscienza rivoluzionaria”, animata dal desiderio di cambiamento e dall’anelito di libertà determinato dalla condizione di sfruttamento di cui questa classe è vittima. 

L’incontro è poi proseguito con l’intervento della professoressa De Giorgi, la quale ha dialogato con il professor Kelly e ispirato nuove riflessioni in merito al concetto di rivoluzione elaborato rispettivamente da Lenin e Mao.

E. Biagini in dialogo con A. De Francesco: A Cultural History of Democracy in the Modern Age

Il ciclo si è concluso il 13 dicembre intorno al testo A Cultural History of Democracy in the Modern Age (2021), curato da Eugenio Biagini e Gary Gerstle, ultimo dei sei volumi di Bloomsbury che prendono in esame le varie forme di esercizio democratico dall’antichità ai giorni nostri, coprendo ambiziosamente un arco temporale di 2500 anni. L’incontro si è svolto sottoforma di dialogo tra Biagini, professore di Modern and Contemporary History presso l’Università di Cambridge, nonché curatore del volume e general editor dell’intera raccolta, e Antonino De Francesco, docente presso il nostro Dipartimento e fine esperto di Rivoluzione francese ed età napoleonica in Italia.

Primo ad intervenire, Biagini ha delineato le principali caratteristiche della serie, la quale, includendo complessivamente i contributi di 12 curatori e 66 esperti, ha innescato un ampio dibattito storico e storiografico intorno al tema della democrazia. Al fine di agevolare confronti e paragoni spazio-temporali («to facilitate comparative discussions across both time and space[8]»), tutti i volumi presentano la stessa suddivisione in dieci capitoli tematicamente definiti. Il primo e l’ultimo capitolo, dedicati rispettivamente alla sovranità (“sovereignty”) e agli aspetti che si spingono oltre l’analisi delle forme democratiche propriamente dette (“beyond the polis”), sono stati concepiti come “bookends”: essi, in effetti, configurati come l’inizio e la fine concettuale del tema in esame, sorreggono e contengono lo sviluppo dell’intera riflessione. Riflessione che si articola successivamente, tra i capitoli due e quattro, sui caratteri fondamentali (vale a dire sui prerequisiti) della democrazia stessa: la libertà e il diritto pubblico, il cosiddetto “bene comune” (“the common good”), infine i diritti economici e sociali[9].

I capitoli dal quinto al nono, sui quali Biagini si è particolarmente soffermato nella sua esposizione, prendono in esame i caratteri costitutivi dei regimi democratici[10]. Tra questi, risultano preminenti il genere e la razza. Solo a Novecento già inoltrato, i diritti democratici sono stati progressivamente estesi all’intero corpus di cittadini, indistintamente dal sesso e dall’appartenenza etnica. In prima battuta, al contrario, molte democrazie si erano caratterizzate per l’esclusione da tali diritti di alcune componenti sociali minoritarie o poco influenti in termini politico-economici[11]: i casi cecoslovacco, irlandese e balcanico offrono alcuni tra i tanti possibili esempi. Ad oggi, pur in un contesto di completamento dell’estensione dei diritti, si pone la spinosa questione dello status dei migranti che raggiungono gli Stati democratici del mondo occidentale.

Anche la religione, letta come una delle forme di obbligo politico più antiche e radicate, è stata compresa nei caratteri costitutivi. Letta principalmente come uno strumento per allenare il senso di impegno morale che ciascun cittadino deve rivolgere allo stato, si è anche trasformata, all’opposto, in un tassello fondamentale nel percorso di diversi movimenti democratici di protesta. Basti pensare al pastore Martin Luther King, guida carismatica per l’affermazione dei diritti civili degli afroamericani o, ancor prima, al ruolo di resistenza al nazismo di Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano.

Un ulteriore aspetto costitutivo è rappresentato dalle crisi, intese come forze capaci di innescare cambiamenti significativi e duraturi (“crisis as constitutive forces”). Il professore ha ricordato, a tal proposito, il ruolo determinante delle donne all’interno dei movimenti resistenziali italiano e francese nella Seconda guerra mondiale. Tale fondamentale contributo in un momento di evidente crisi democratica determinò il pieno riconoscimento, nell’immediato dopoguerra, della cittadinanza femminile.

Citando brevemente le relazioni internazionali come ultimo carattere da monitorare nell’analisi dei regimi democratici, l’autore ha concluso riflettendo sullo stato attuale della democrazia. Quest’ultima non versa sicuramente in una facile condizione ed è, anzi, in forte crisi: la sua tenuta è minata dai populismi e, più di recente, anche la pandemia da coronavirus ha posto nuove e decisive sfide. Dall’analisi millenaria del concetto di democrazia, emergono numerose fasi di crisi, a cui gli uomini hanno spesso saputo rispondere in modo propositivo, rilanciando e rafforzando i caratteri fondamentali e costitutivi della democrazia. Di conseguenza, anche per il nostro presente, si può affermare che «although we are historians, not prophets, we have reason to hope that democracy will revive yet again[12]».

Prendendo la parola, Antonino De Francesco ha sottolineato il prestigio e l’originalità della collana curata da Biagini: il principale merito consiste nell’aver affrontato il non semplice concetto di democrazia sul lungo periodo, ponendo l’accento su un “torrente tumultuoso di esperienze democratiche”. Il lavoro, in particolare, è stato portato avanti senza scadere in forme di finalismo o di teleologia: la democrazia è sempre stata analizzata in termini critici e obiettivi, dimostrando come il cammino democratico non sia stato sempre lineare o privo di storture, bensì caratterizzato da diverse crisi e riprese. Un ulteriore pregio dell’opera risiede nella sua dimensione globale: partendo dai primi esperimenti democratici nell’area mediterranea, i volumi tracciano la graduale diffusione nel resto del mondo.

Ed è proprio rispetto all’espansione della democrazia che Biagini ha concluso l’incontro, identificando metaforicamente la democrazia con la tecnologia della ruota. La ruota, inserendosi nel tempo in contesti diversi rispetto a quelli in cui venne inventata, non solo si è ampiamente diffusa, ma si è anche adattata, sviluppando peculiarità e apportando diverse migliorie alla tecnologia iniziale. Lo stesso vale per la democrazia, che, pur traendo inevitabilmente ispirazione da alcuni modelli principali, si è saputa inserire e modificare nei contesti più disparati.

Serena Bonetti e Matteo Minen


[1] H. Dawson (ed. by), The Penguin Book of Feminist Writing, Londra 2021.

[2] Ivi, pp. 28-35.

[3] Ivi, pp. 170-179.

[4] Ivi, pp. 111-115.

[5] S. Kapila, Violent Fraternity: Indian Political Thought in the Global Age, Princeton 2021, pp. 11-13.

[6] Ivi, p. 8: «The foe or enemy was discovered to be the intimate brother and kinsmen with a potential for destruction».

[7] Ivi, p. 281.

[8] E. F. Biagini, G. Gerstle (ed. by), A Cultural History of Democracy in the Modern Age, Londra 2021, p. XII.

[9] In ordine di trattazione nell’opera: liberty and the rule of law; the common good; social and economic democracy.

[10] Sempre in ordine di trattazione: religion and the principles of political obligation; citizenship and gender; race, ethnicity and nationalism; democratic crisis, revolutions, and civil resistance; international relations.

[11] E. F. Biagini, G. Gerstle (ed. by), A Cultural History of Democracy in the Modern Age, cit., p. 13: «Traditionally, democracies […] have often eleveted one racial or ethnic group over others. Opening up these societies to the full participation of residents […] has always been a contentious process».

[12] Ivi, p. 15.