Simon P. Newman, Freedom Seekers: escaping from slavery in Restoration London, London University of London Press, 2022

Il libro di Simon P. Newman, docente presso la Glasgow University, si inserisce
all’interno di un percorso iniziato dalla stessa università, orientato a dare una svolta agli
studi sulla schiavitù nel mondo atlantico. Freedom Seekers riconosce a Londra e al
periodico britannico un ruolo centrale nell’istituzionalizzazione del razzismo e della
schiavitù nel mondo occidentale.
Il focus principale di Newman sono in particolare degli annunci, che appaiono a
partire dal 1655, che richiedono la restituzione di schiavi che lavoravano presso Londra,
da poco fuggiti, e offrono una ricompensa a chiunque li avesse riportati indietro. Sono
queste, secondo lo studioso, testimonianze rare e preziose su persone che spesso
sfuggono completamente ai documenti d’archivio. Sono soprattutto questi brevi passi di
giornale che permettono a Newman di affermare, nel prologo dell’opera, che “la schiavitù
razziale venne creata simultaneamente a Londra e nelle colonie” (p. xxvii).
Per Newman, insomma, è la Londra seicentesca che, attraverso gli annunci
pubblicitari sugli schiavi fuggiaschi, crea le prime modalità di risposta alla resistenza
contro la schiavitù e inizia a plasmare linguaggi e concetti di un razzismo che avrebbe
permeato la cultura occidentale per i secoli a venire. Questa nuova lettura dell’Inghilterra
del XVII secolo permette di descrivere la schiavitù come un processo non più solo
coloniale, ma anche e soprattutto europeo.
Al panel di presentazione dell’opera (tenutosi presso la Royal Historical Society)
l’autore ha però voluto mettere in luce un altro obiettivo del suo scritto. Attraverso il
recupero di questi brevi annunci di giornale, Newman cerca infatti di dare voce a una delle
tante categorie che la storia e la storiografia hanno spesso preso in poca considerazione,
di umanizzare coloro che sono stati spesso disumanizzati. Non è un caso dunque che
questo libro sia stato pubblicato proprio durante il Black History Month 2022: una scelta
forte da parte dello storico inglese, che decide di caricare il suo libro di un forte ed
ulteriore significato socio-culturale.
Il volume è diviso in tre parti, la prima delle quali volta a dare una presentazione
generale della Londra della Restaurazione e della black community che lì si stava
formando: tale approccio permette fin da subito al lettore di comprendere la geografia e la
società entro le quali si svolgono le storie dei “freedom seekers” raccontate nelle due
parti successive.
La Londra del Seicento è presentata come una città caotica e tormentata, che tra
1665 e 1681 attraversa la peste, un enorme incendio e i problemi politici successivi al
ritorno degli Stuart sul trono. Ciononostante, la capitale inglese, nella seconda metà del
XVII secolo, testimonia una grande crescita geografica e sociale, che porta al formarsi di
una sfera pubblica, concetto che fa riferimento alla nascita di istituzioni che creano una
nuova piattaforma democratica di comunicazione (il riferimento è: J. Habermas,
Strukturwandel der Öffentlichkeit, 1962), istituzioni che Newman trova nel Royal
Exchange, nelle coffee house e in giornali come il «London Gazette». Rispetto ad altri
autori, Newman però non legge in maniera unidirezionale il concetto di public sphere,
riconoscendo proprio nelle suddette istituzioni i motori principali del sistema razzistico
inglese: erano i giornali che, pagati, pubblicavano gli annunci sugli schiavi fuggiti, basati
su un formato standard nato per gli animali scomparsi, ed era nelle coffee house e nelle
stamperie che questi schiavi spesso dovevano essere riportati.
Successivamente l’autore dedica un capitolo alla black community della Londra di
allora, studiata attraverso i pochi documenti che ne testimoniano la presenza: i registri
parrocchiali, che portano alla luce una comunità di persone libere provenienti dall’Africa,
dall’India o dal Sud-Est asiatico, nella quale si sarebbero potuti inserire i “freedom
seekers” dopo la loro fuga.
Tali documenti oltretutto anticipano un problema di carattere linguistico che
attraversa l’intero volume: non essendosi ancora cristallizzato un linguaggio razziale ben
preciso nel XVII sec., spesso tali figure venivano identificate generalmente come “black”.
Viene imposto così un grande limite all’autore, che, tra i 212 annunci da lui raccolti, solo
in casi sporadici ha potuto constatare la provenienza del fuggitivo stesso, ricostruendone
meglio la storia. Nonostante questi limiti, l’autore riesce a ricostruire una “ecologia di
storie personali, esperienze, motivazioni e comportamenti” (p. 58) fra gli schiavi della
Londra della Restaurazione.
Le ultime due parti del volume rappresentano infine il cuore della ricerca di
Newman, il quale prende in considerazione la storia di circa quindici “freedom seekers”.
Si tratta di interessanti esempi di microstoria, ognuno dei quali volto ad approfondire un
singolo aspetto della schiavitù presso Londra.
Per esempio, partendo da un annuncio sul «London Gazette» sulla scomparsa di
un giovanissimo schiavo di 8 anni, il piccolo Jack, l’autore arriva a trattare dei bambini e
ragazzi africani senza libertà nella Londra seicentesca: persino il celebre Pepys, ci ricorda
Newman, possedeva un “enslaved neager-boy” (p. 75), come racconta nel suo diario.
Questi giovani africani non erano usati per i lavori pesanti, anche perché negli articoli
presi in considerazione sono spesso descritti come ben vestiti, in quanto dovevano
aiutare il padrone a prepararsi, conservare lucide le armi e rappresentare la sua ricchezza.
Altri temi trattati sono il ruolo delle donne nella popolazione nera schiavizzata di
Londra o i tratti distintivi di questi fuggiaschi, come cicatrici o segni derivanti da riti di
iniziazione dei loro popoli originari o frutto della violenza dei loro padroni. Proprio questi
segni, spesso presenti sul volto, possono essere un indizio utile a ricostruire il passato di
questi individui, sulla cui origine gli articoli di giornale non sono mai molto chiari: si pensi,
per esempio, che il termine “black”, come citato sopra, veniva usato per descrivere
indistintamente gli schiavi provenienti dall’Africa e dal Sud-est asiatico.
Caso che colpisce molto è quello di Pompey, fuggito nel 1703 con addosso un
collare in ottone, un’icona di disumanizzazione, che lo marchiava come proprietà altrui, e
che Orlando Patterson ha definito “morte sociale dello schiavo” (p. 128). Questo simbolo
chiave dell’iconologia schiavista permette all’autore oltretutto di far riemergere i pochi
elementi di arte figurativa che testimoniano la presenza di schiavi a Londra. Per esempio,
Newman parla di una scatola di tabacco con la raffigurazione del volto di uno schiavo
identificato dal collare, un oggetto che, secondo l’autore, per la sua portata quotidiana,
presenta la schiavitù come una pratica che si era ormai normalizzata nella City e nei suoi
dintorni.
Il volume si chiude sorprendentemente con la figura di Benjamin Franklin, padre
fondatore qui presentato come colui che ha importato nei futuri Stati Uniti d’America non
solo il periodico, ma con esso anche gli annunci sugli schiavi fuggiti.
Con quest’opera l’autore, che pone sotto una nuova luce la città di Londra e figure
come Franklin, narra della nascita di un “discorso pubblico sulla schiavitù” (p. 215) in
maniera concisa e oscillando fra la piccola e la grande storia. Nonostante non esista
ancora una versione italiana di Freedom Seekers, il suo inglese rimane accessibile ai più
dunque di facile lettura.

Riccardo Trabattoni