Francesco Benigno, Rivoluzioni tra storia e storiografia, Officina Libraria, Roma, 2021

Le rivoluzioni sono sempre state degli eventi che hanno affascinato in ogni tempo, spesso periodizzanti per la storia di uno Stato e capaci di fornire un senso al presente ed orientare l’agire futuro. Grandi narrazioni le hanno accompagnate nella memoria delle comunità, e sature di simboli hanno dato vita a protagonisti tragici ed eroici.  In Rivoluzioni tra storia e storiografia Francesco Benigno, professore di Storia Moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e membro della redazione, oltre che fra i principali fondatori, della rivista “Storica”, propone una nuova considerazione dell’evento rivoluzionario. Al contrario di come la si intende comunemente, la rivoluzione non sarebbe un abbandono o un superamento della regolazione della vita collettiva, bensì una trasformazione della stessa, un evento non estraneo alla politica. Con tale approccio, il libro di Benigno si riconnette idealmente ad un saggio dell’autore del 1999, Specchi della rivoluzione. Conflitto e identità politica nell’Europa moderna (Donzelli Editore), con cui condivide anche l’assetto metodologico, ovvero lo sviluppo di una riflessione che metta in contatto il dibattito storiografico e la ricostruzione delle vicende. Le novità, tuttavia, sono presenti rispetto al volume precedente. Costituiscono infatti la natura del nuovo scritto non interventi organici sulla storia della storiografia, bensì discussioni critiche e spunti di ragionamento, in un arco temporale che parte dalle ribellioniseicentesche giungendo sino al comunismo novecentesco.

Di essenziale importanza per l’autore è poter iniziare la narrazione riflettendo sul concetto di rivoluzione, passando in rassegna le considerazioni di cui godette nel passato. Sotto tale aspetto la stessa Rivoluzione francese, si sottolinea, fu un evento periodizzante. Se prima di questa la rivoluzione aveva un carattere astronomico, assicurato dalla concezione aristotelica del mutamento politico soggetto ad un degrado; successivamente indicò un mutamento irreversibile capace di sostenere un nuovo ordine delle cose, diventare modello per le rivolte future. Odiernamente dalla storiografia le rivoluzioni non sono più lette in tale modo o come presupposto dell’evoluzione storica, o come ancora eventi politici e non sociali, di natura totalitaria e dispotica. Sono, invece, eventi capaci di allargare la partecipazione politica, di introdurre diritti individuali e al contempo la logica del terrore. Comportano quindi un mutamento, in ampiezza, della nozione di politica, che si concentra non solo sulle azioni istituzionali ma anche su quelle simboliche. Ciò ha una sua riflessione sull’aspetto metodologico che riesce ad inglobare fonti prima scarsamente considerate, come l’iconografia ed i pamphlet. Benigno, tuttavia, non si risparmia delle critiche al recente approccio della storia delle emozioni, che rischia di interpretare le rivoluzioni come legate al naturalismo ed in concezione astorica.

A seguito di una dovuta introduzione concettuale, lo studioso inizia le proprie considerazioni che vedono come primo spunto di riflessione il fazionismo aristocratico della prima Età Moderna. Prima della Grande Rèvolution questo è considerato il vero motore della rivoluzione, cui segue una radicalizzazione che spesso porta ad un ampiamento e ad un ristringimento dei membri dell’agire politico. La dimostrazione avviene tramite i lavori di Adamson, Hugon e Ribot Garcia, proponendo l’esempio della rivoluzione inglese e napoletana, con un focus su quest’ultima, non solo per il modello catalano a cui si ispira, ma anche e soprattutto perché ricca di un elemento significativo che va oltre il fazionismo, ovvero il protagonismo di Masaniello, esempio di radicalizzazione, ripreso in seguito come modello che permise agli eventi di assumere una propria direzione.

Pagine salienti sono dedicate alla Rivoluzione francese, soggetto ampiamente conosciuto, questa volta esplorato tramite i lavori di Tackett, Isreael e Burstin, cui puntualmente Benigno pone delle critiche doverose. Prima fra tutte e comune ai tre lavori è quella di non considerare l’appello al popolo nella politica rivoluzionaria. Nello specifico, alla storia delle emozioni di Tackett, che si pone l’obbiettivo di un’analisi della mentalità cospirativa oratoria come principale fautrice del Terrore, il professore esplicita come questi aspetti siano presenti tanto negli oratori quanto nelle masse e sia difficile sostenere un rapporto univoco alla base della tesi, come tenta invece Tackett. L’analisi delle idee e non dei soggetti rivoluzionari di Israel, invece, porta questo secondo autore a considerare le pagine dei filosofi causa del mutamento storico, sostenendo la presenza di un movimento democratico e progressista e di gruppi impegnati nel suo sabotaggio. La polarizzazione e la semplificazione proposte per Benigno non prendono in considerazione molti elementi, che vanno dall’uso della piazza per sovvertire i rapporti di forza nelle assemblee, alla natura del Terrore, che Israel presenta solamente come uno sbandamento circoscritto. L’approccio di Brustin alla rivoluzione è di carattere antropologico, con attenzione alla psicologia degli attori storici, animati da una volontà di far ripartire la società da zero. Tuttavia, lo studioso evidenzia come queste modalità d’indagine finiscano per essere un processo di astrazione dell’uomo rivoluzionario, non considerando le contraddizioni che ne segnano il percorso. I tre saggi, comunque, hanno delle caratteristiche comuni che sono lodate da Benigno e che rappresentano un nuovo intento storiografico, come cercare di rispondere alle domande del presente su questo fenomeno storico, o non farne il padre dell’ingegneria sociale dispotica del XX secolo.

Alla contemporaneità sono dedicati gli ultimi capitoli del saggio. Il tema della rivoluzione nazionale è affrontato da Benigno tramite i lavori di Banti e Bistarelli.  Il primo cerca di dimostrare come la chiave della spinta risorgimentale risieda nella potenza formativa del discorso romantico-nazionale, alimentato dalla letteratura, dall’arte e dai suoi artefici. Sebbene Benigno riconosca le capacità e l’originalità del collega, pone dei seri dubbi sia per quanto concerne la funzione dei letterati a seguito del fermento risorgimentale, ovvero se abbiano avuto ancora la forza di influenzare la politica del Paese, aspetto non indagato da Banti che lascia incompleto il quadro fornito al lettore. Criticata è anche la ricostruzione del lascito dell’ideale risorgimentale, che ne vede, con le dovute modifiche, il fascismo come principale erede. Tuttavia, le posizioni dei due studiosi convergono su un nuovo tipo di patriottismo odierno che dovrebbe nascere non dal lascito risorgimentale bensì dalla Carta Costituzionale.
Il secondo autore invece indaga il discorso della nazionalità tramite la lontananza dalla Patria e precisamente usando le figure degli esuli del 1821. La natura esclusiva dell’esule non permette l’integrazione nella comunità locale, ma la creazione elitaria di una comunità stessa di esuli, da cui scaturiscono diverse forme di cultura. Il professore considera magistrale il lavoro del collega e invita il lettore a porsi questioni più radicali sul tema trattato, oltre alla sfera risorgimentale. Il capitolo termina con una importante riflessione sull’influenza dei Vespri siciliani nel tema della nazionalità.

Rivoluzioni si avvia alla conclusione con una tematica assai imponente che ha caratterizzato in modo singolare l’ultimo decennio del secolo scorso e la politica degli ultimi vent’anni: l’illusione comunista. Si affronta tale tematica con tre saggi, quello di Furet, di Riot-Sacrey e di Enzo Traverso. Furet ritiene che la passione che muove l’azione democratica non sia quella di classe ma una antimoderna e antiborghese, che vuole il comunismo come sua creazione totalitaria, lasciando a Benigno fortissimi dubbi. Principalmente sono composti dall’evidenziare come la società borghese rimanga sempre la medesima, che sia preindustriale o postmoderna, ignorando i cambiamenti che vi sono stati in essa e relegando il comunismo come circostanza dell’avvenire democratico.
La prospettiva dei due ultimi autori è molto simile fra loro e si tratta di indagare che tipo di storia si possa praticare dopo la caduta dell’ideale. La risposta consiste in una storia che si concentri sui vinti, sugli scartati, applicata per lo studioso francese all’Ottocento e per Traverso agli eventi politici che hanno portato alla creazione del sogno-mito. Per Benigno, tuttavia, in entrambi i lavori non vi è abbastanza attenzione alla componente anarchica e vi sono troppe semplificazioni, come ad esempio quella di Traverso in cui si accomuna la sinistra al marxismo e questo al bolscevismo. Sempre quest’ultimo lavoro è oggetto di forti critiche sulla figura dello storico, per Traverso sempre politicizzato, sminuendo la sua continua ricerca della verità, prerogativa, come dimostra il suo scritto, dell’indagine sulle rivoluzioni di Benigno.

Flavio Luigi Fortese