Un centenario scomodo

di Giovanni D’Antoni

Volenti o nolenti, tutti i nodi delle ricorrenze centenarie alla fine giungono al pettine del tempo, inclusi quelli più scomodi che non appartengono al novero del calendario civile ufficiale della Repubblica. «Gli anniversari appaiono un osservatorio efficace per cogliere ciò che si muove nel profondo di una società»[1] ha sottolineato lo storico Massimo Baioni. Bella o brutta, calata dall’alto dello Stato o sollevata dal basso del ventre molle della Nazione, ogni pratica commemorativa proietta il passato sullo schermo del presente, producendo ricadute che concorrono alla formazione della memoria collettiva.

Da tre quarti di secolo le massime ricorrenze dell’età repubblicana sono il 25 aprile e il 2 giugno, pilastri della nuova memoria pubblica basata sulle fondamenta di quella “Bibbia civile” che è la Costituzione antifascista. Tuttavia, per quanto essa risulti la master narrative ufficiale veicolata dalle istituzioni, ciò non ha impedito il protrarsi nel tempo di focolai di memorie alternative e separate. Memorie antitetiche e inconciliate frutto di narrazioni concorrenti che riaffiorano puntualmente come fiumi carsici; memorie sotterranee che covano tra le ceneri, manifestandosi coi ritorni di fiamma dei propri rituali antagonistici, uno tra tutti la celebrazione della marcia fascista su Roma del 28 ottobre 1922.

Quest’anno ci sarà inevitabilmente chi ne festeggerà la ricorrenza centenaria. In fondo è sempre accaduto finora, basta sfogliare i quotidiani degli ultimi decenni all’indomani di tale data topica, o visionare i tanti filmati disponibili in rete, l’ultimo dei quali è del 2021 a Predappio in occasione dei novantanove anni dalla storica marcia. A qualcuno potrebbe magari sfuggire una risata nell’osservare i nostalgici pellegrini, accorsi nella “Betlemme fascista” da varie regioni d’Italia, mentre sfilano con indosso divise nere improvvisate e fantasiose, dubbi copricapi anneriti e persino mascherine nere in tempo di Covid. Immagini che, a tratti, richiamano alla mente i fascisti della prima ora che dal 28 ottobre 1922 e nei giorni successivi, non esistendo ancora divise ufficiali, marciarono abbigliati in maniera altrettanto casereccia e approssimata, armati alla meno peggio.

Un testimone del tempo, l’antifascista Emilio Lussu, nel proprio libro Marcia su Roma e dintorni non lesinò toni da commedia amara nel descrivere una marcia iniziata col proprio «comandante che sta fermo e si cinge di filo spinato»[2] a Milano, dove il “condottiero” si era barricato nel fortalizio del suo giornale in attesa dell’evolvere degli eventi, pronto a riparare nella vicina Svizzera se posto davanti alla mala parata. Oltretutto, buona parte della marcia delle legioni fasciste avvenne soprattutto in treno a causa di un’implacabile pioggia battente.

Tuttavia, oggi sarebbe superficiale paragonare ironicamente la marcia sulla capitale a una nuova “calata dei barbari”, dopo il sacco di Roma del 410 o quello del 1527. È vero, era stato Mussolini stesso a minacciare: «O ci daranno il governo, o lo prenderemo calando su Roma»[3], mettendo in azione le masse con un rapido colpo di mano per capitalizzare sulla crisi della democrazia liberale, prima che cessasse del tutto la “grande paura” della borghesia con lo scemare dei disordini del Biennio rosso conseguenti alle ferite ancora sanguinanti, aperte dalla “vittoria mutilata” della Grande guerra. Questa volta, però, a calare sulla capitale il 28 ottobre non furono i barbari, bensì i militanti di un movimento politico in crescita, trasformatosi in partito l’anno prima proprio a Roma e che vantava alle proprie spalle alcuni nomi di peso della cultura e una fetta non trascurabile della borghesia del Paese.

Persino Benedetto Croce, in seguito autore del famoso Manifesto antifascista del 1925, il 24 ottobre 1922 aveva applaudito Mussolini al Teatro San Carlo nell’adunata napoletana preparatoria dell’imminente marcia sulla capitale. Del resto, il modello stesso era stato fornito dal “Vate” D’Annunzio con la sua presa di Fiume di pochi anni prima, per non parlare del prototipo ancor più antico e romanamente illustre offerto alle legioni dei “quadrumviri” fascisti dalla coraggiosa discesa di Cesare su Roma oltre i sacri confini del Rubicone. Insomma, l’Ora o mai più! di Mussolini nel 1922 così come l’Alea iacta est di Cesare nel 49 a.C.

Presentandosi nella capitale solo il 30 ottobre per ricevere l’incarico da re Vittorio Emanuele III, che alla fine scelse di non firmare lo stato di assedio, Mussolini accreditò se stesso come leader responsabile, garante dell’ordine e rassicuratore dell’Italia, per aver impedito che la marcia delle colonne fasciste potesse degenerare in una guerra civile, facendone anzi una disciplinata parata dimostrativa, nonché una grande vetrina internazionale. La stampa inglese, ad esempio, lo paragonò a un novello san Giorgio che salvava l’Italia dal pericoloso drago rosso bolscevico.

Da allora, molteplici e spesso in antitesi sono state le espressioni con cui è stata etichettata la marcia su Roma: “rivoluzione fascista”, “colpo di Stato”, “controrivoluzione preventiva”, “insurrezione legalitaria”, “rivoluzione conservatrice”, “cospirazione alla luce del sole”. D’altra parte, fu Mussolini stesso a darne definizioni cangianti col mutare del tempo: da un «rivoluzione»[4], come pronunciò nel suo discorso al Senato del 3 luglio 1924, a una «insurrezione»[5], come scrisse poi nel suo libro Il tempo del bastone e della carota del 1944.

A tutto ciò, si aggiunga che il nodo del carattere ambiguo e contraddittorio dell’evento non fu mai sciolto, nonostante l’intento del regime di farne il proprio mito fondativo in modo indiscusso. Tanto per cominciare, se fosse vero che tutta l’Italia nell’ottobre 1922 era già compattamente fascista, secondo la vulgata di Stato che la propaganda mussoliniana avrebbe poi tramandato, non si spiegherebbero la “presenza del nemico” né i martiri fascisti caduti durante quelle giornate concitate, fatti che furono sempre fonte di imbarazzo per il regime. Comunque la si voglia chiamare, tale marcia costituì «una conditio sine qua non dello stesso fascismo»[6], come scrisse il giurista Antonino Répaci e, ad ogni modo, «non fu una cimice caduta chi sa dove mai donde sulla manica del popolo italiano»[7], come evidenziò Salvemini, ma il preludio di una lunga e dolorosa dittatura le cui radici affondavano in un nutrito terreno di coltura. Volgendo ora lo sguardo ai numeri concreti invece che alle opinioni astratte, se alle cifre delle colonne materialmente in marcia si sommano i numeri più cospicui della mobilitazione complessiva di squadre fasciste acquartierate o di riserva, si trattò dell’«atto eversivo di maggiore portata mai compiuto nella storia dell’Italia unitaria»[8], come ha notato lo storico Gianpasquale Santomassimo.

Quanto alla simbologia temporale, al posto della Natività di Cristo, l’anno zero nel nuovo calendario civile dell’Italia fascista divenne proprio il 28 ottobre 1922. Si iniziò così a distinguere tra un “ante-marcia” e un “post-marcia”, tale era il valore legittimante tributato dalla liturgia politica mussoliniana all’epopea della marcia su Roma. L’episodio segnò infatti l’avvento ufficiale del P.N.F. al potere e, pertanto, fu assurto a identificazione suprema tra fascismo e nazione italiana. Già nel 1923, in occasione del primo anniversario, furono stabiliti quattro giorni di festa a partire dal 28 ottobre, con cerimonie grandiose in tutta Italia, imbandieramento e illuminazione degli edifici pubblici.

Con l’istituzionalizzazione a partire dal 1926 del “culto del littorio” – la nuova religione politica che sacralizzava lo stato fascista secondo il comandamento “Credere, obbedire, combattere” – la data del 28 ottobre divenne festività scolastica e poi nazionale. La dicitura onorifica mediante formula “Anno n° E. F.”, con numero romano da contarsi a partire dal 28 ottobre 1922, fu posta sugli atti ufficiali dello Stato e sui nuovi edifici pubblici al fine di mitizzare l’inizio della nuova “Era Fascista”.

Per celebrare il decennale della “nuova era” attraverso la trasfigurazione epica del linguaggio artistico futurista, il 28 ottobre 1932 a Roma fu organizzata la grandiosa Mostra della rivoluzione fascista, poi riallestita in piena guerra in occasione del ventennale del 1942. Fiore all’occhiello dell’esibizione, che annoverava artisti di fama come Sironi e Terragni, furono infatti le sale dedicate alla marcia trionfale del 1922, in particolare l’ultima (“Sala dell’avvento e della conquista dello Stato”), apoteosi delle centurie di camicie nere che irrompevano nella capitale, grazie a un allestimento scenografico dinamico ricco di fotografie, documenti, vessilli, cimeli e indumenti insanguinati, “sacre reliquie” dei “martiri fascisti” caduti sul campo.

In riferimento a questi ultimi, la celebrazione del “martirologio fascista” prevedeva un vero e proprio “sacrario” dove venerare l’eroico sacrificio delle camicie nere cadute per custodirne la memoria, ricordandole con pellegrinaggi periodici e col “rito dell’appello” in occasione degli anniversari del regime fascista. Gli stessi pellegrinaggi e “rito dell’appello” che si svolgono puntualmente ogni 28 ottobre a Predappio a opera dei nostalgici del Ventennio e dei cultori dell’”uomo forte” al comando, come testimoniano i numerosi filmati in cui un militante grida “Camerata Benito Mussolini?” e la folla in abiti neri, raccolta davanti al cimitero di San Cassiano contenente la cripta del “duce” del fascismo, risponde all’unisono “Presente!” con voce tonante e mano sul cuore, dopo aver marciato per le vie in religioso silenzio. Non si conta la quantità di commenti sarcastici aggiunti in corrispondenza di tali filmati sul canale social Youtube; tuttavia, così come è riduttivo minimizzare il significato della marcia su Roma del 1922, allo stesso modo le ricorrenti manifestazioni a Predappio rappresentano un fenomeno non derubricabile a mera scampagnata folcloristica, ma vanno analizzate con serietà e senza pregiudizio, iniziando da un dovuto esame critico del luogo in questione. La casa natale del genius loci, macchina del consenso come sede di crescenti pellegrinaggi di ammiratori, gite del dopolavoro, di scolaresche e dell’Opera nazionale balilla già quando Mussolini era in vita, è un unicum assoluto che costituisce un’eredità ingombrante. “Mecca del regime”, “Terrasanta delle camicie nere”, “Betlemme fascista”, con tanto di “quercia del duce” davanti alla chiesa come peculiare albero dei “di Lui natali”, Predappio è diventata anche il “Santo Sepolcro” di Mussolini. Precipitata a periferia reietta negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, subito dopo essere stata liberata per ironia della sorte dagli Alleati nel 1944 proprio il 28 ottobre, dal 1957 Predappio ospita la salma mussoliniana inumata presso la cripta di famiglia. Nel 1962, la cittadina è stata persino innalzata a teatro del matrimonio tra Romano Mussolini e Maria Scicolone, sorella di Sophia Loren, la quale presenziò alle nozze con l’immancabile codazzo di fotografi.

Va detto che «il paese – autentico nomen omen – assorbe e incorpora per metonimia i fantasmi del passato e quelli nuovi del presente, proiettando sul futuro l’ombra di Mussolini e di quanti continuano a venerarne la memoria o, più velatamente, a proporre una visione bonaria del Ventennio»[9], A tal riguardo, basta ascoltare le parole rilasciate alla telecamera di «Agorà Extra» da Mirco Santarelli, presidente degli Arditi d’Italia, intervistato a Predappio per conto di Rai3 nel filmato dal titolo La marcetta nera su Predappio trasmesso l’1 novembre 2021 e tuttora disponibile su Youtube: «Alla fine, quella di Mussolini fu una dittatura all’acqua dolce, che portò tante cose all’Italia»[10].

A questa visione edulcorata di un fascismo “all’acqua di rose”, figlia del mito auto-assolutorio del “bravo italiano” contrapposto al comodo alibi del “cattivo tedesco”, in grado di demistificare la stessa marcia fascista su Roma del 1922, hanno contribuito diversi fattori nel corso degli ultimi decenni tra cui: la mancanza di una “Norimberga italiana”; la campagna di “parificazione” tra i morti italiani di entrambe le parti (repubblichini di Salò e partigiani caduti tra il ‘43 e ‘45) svolta dal Centrodestra postfascista più volte al governo dopo la metà degli anni Novanta; l’assenza di un “giorno del ricordo” in memoria delle vittime dei fascisti; film indulgenti come Italiani brava gente, Mediterraneo o Il mandolino del capitano Corelli. Insomma: una vera e propria «defascistizzazione retroattiva»[11].

Dopo il caos mediatico e il conseguente discredito internazionale sollevato dall’attivista di Forza Nuova che nel 2018 aveva indossato una maglietta con la scritta oltraggiosa “Auschwitzland” a Predappio, l’anno successivo gli stessi organizzatori degli Arditi d’Italia hanno iniziato ad auspicare maggior ordine e disciplina per contenere eccessi o “carnevalate” simili da parte delle proprie centinaia di militanti. Sullo sfondo di filmati e foto realizzati durante i raduni nostalgici predappiesi, oltre ai negozi di gadgets e souvenirs fascistizzanti, si stagliano plasticamente pure gli ingombranti edifici propagandistici del regime, tra cui la Casa del fascio e dell’ospitalità, fatti erigere da Mussolini, “novello Romolo” che tracciò il solco della “Predappio Nuova” per glorificare le proprie origini private a suon di denaro pubblico. Proiezioni su marmo e mattoni del “fascismo di pietra” degli anni Trenta e Quaranta, con innumerevoli esempi tuttora in piedi in varie città d’Italia.

Si tratta di un ultimo tema importante da prendere in esame. A tal proposito, qualche intellettuale ha sollevato la preoccupazione, del tutto legittima, che l’esistenza di tali edifici, scampati tanto ai bombardamenti angloamericani quanto alla doppia furia iconoclasta del 25 luglio 1943 e del 25 aprile 1945, possa generare il rischio di una potenziale riabilitazione strumentale del fascismo, offrendo luoghi di attrazione e raduno per pellegrinaggi nostalgici da parte dei neofascisti di oggi e di domani. Un’altra sfida da non prendere sottogamba, ma da affrontare con gli strumenti della divulgazione storica e della Public History, come ad esempio la recente proposta di istituire un museo sulla storia della società italiana tra le due guerre mondiali proprio a Predappio, nella ex Casa del fascio. Staremo a vedere.

Intanto, saremo testimoni di ciò che accadrà il prossimo 28 ottobre in occasione del centenario della “marcia su Roma”, per giunta ad appena un mese dalle elezioni politiche che probabilmente porteranno al governo del Paese la Destra postfascista capitanata dal partito erede del M.S.I., la cui fiamma sovrastante il sepolcro mussoliniano non ha mai smesso di ardere nel proprio simbolo elettorale.


[1] M. Baioni, Le patrie degli italiani. Percorsi nel Novecento, Pisa 2017, p. 143.

[2] E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, Torino 1945, pp. 54-55, (1° ed. originale: Parigi 1933).

[3] B. Mussolini, discorso tenuto all’adunata fascista al Teatro San Carlo di Napoli il 24 ottobre 1922, citato da Santomassimo, La marcia su Roma, cit., p. 63.

[4] B. Mussolini, discorso al Senato del 3 luglio 1924, citato da Santomassimo, La marcia su Roma, cit., p.117.

[5] B. Mussolini, Il tempo del bastone e della carota: storia di un anno (ottobre 1942-settembre 1943), Suppl. del «Corriere della sera» n. 190 del 9 agosto 1944, Milano 1944, p. 39.

[6] A. Répaci, La marcia su Roma, Milano 1972, p. 19.

[7] G. Salvemini, Sulle origini del movimento fascista, in «Occidente», 10/3 (1954), p. 326.

[8] G. Santomassimo, La marcia su Roma, cit., p. 9.

[9] M. Baioni, Nomen omen. Un museo a Predappio?, in «E-Review», 6 (2018). p. 4 < https://e-review.it/baioni-nomen-omen >.

[10] Mirco Santarelli, cfr. < https://www.youtube.com/watch?v=REJSBOU1nL8 >, data consultazione: 20 settembre 2022.

[11] E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, 2002, p. VII.

Leave a Reply