Davide Bonfante interviene su Andrea Bianchi e i suoi studi sulle malattie professionali (1839)

Davide Bonfante, Un precursore dell’igiene delle classi lavoratrici. Andrea Bianchi e gli studi sulle conseguenze dell’esercizio dei mestieri artigiani.

Il profilo biografico

Andrea Bianchi (Milano, 1811-1841) è una figura poco nota della storia della medicina in Italia. Fu medico chirurgo e morì in giovane età a causa della tubercolosi[1]. Nella sua carriera scientifico-letteraria si occupò di traduzione di opere di medicina dal francese, ma pubblicò anche alcuni studi sulle malattie professionali, tre dei quali comparvero sul celebre Politecnico di Carlo Cattaneo[2]. Di lui è noto anche un Dizionario di sanità per il popolo rimasto incompiuto e pubblicato postumo per opera di amici e estimatori.

Qualche dettaglio supplementare sulla sua personalità ed attività professionale è rintracciabile nei commenti, necrologi e recensioni che riguardarono la sua opera all’indomani della sua morte. Forte era il rammarico per la sua perdita manifestato per esempio da G. Belloni: «peccato sia morto quel bravo dottore Andrea Bianchi! Egli era uno di quei pochi che sentono ed intendono che il povero popolo ha finalmente bisogno che chi ha mente e cuore pensi ed operi per lui! (…) Egli si è aggirato in mezzo al popolo, in mezzo alla numerosa famiglia di poveri artieri, ed alla vista di molte nudità, di moltissime piaghe, di mille bisogni, studiò, faticò, scrisse ed operò per quelli, a cui non arrossì chiamarsi, di mostrarsi fratello»[3]. Un giudizio simile era espresso da Cattaneo sullo stesso Politecnico[4]; il dottor Andrea Verga sulla Gazzetta medica di Milano non risparmiava critiche anche aspre al lavoro di Bianchi, ma riconosceva che quest’ultimo «[non aveva] nel corso di sua breve esistenza altro pensato ed inteso che l’esterminio dell’errore e la prosperità del popolo tra cui visse»[5].

Bianchi appare perciò come un giovane medico dedito al lavoro sul campo e particolarmente interessato alle condizioni igieniche e di vita delle classi lavoratrici ed alla popolarizzazione della medicina; uno studioso, inoltre, attento alle innovazioni della sua epoca, dall’uso di dati statistici alla più aggiornata letteratura d’Oltralpe riguardo le nuove forme del lavoro e alla meccanizzazione della manifattura.

Il Politecnico e Bianchi nel dibattito culturale e medico dell’epoca

La rivista di Cattaneo vide la luce in un periodo di grande fervore e dibattito scientifico e accompagnato da iniziative importanti come il primo Congresso degli scienziati italiani (Pisa 1839). Lo scopo dichiarato dell’iniziativa editoriale era quello di utilizzare una pluralità di approcci analitici e in particolare le nuove conoscenze portate dal progresso scientifico e tecnologico per operare a favore del «progresso, della civiltà e dell’emancipazione»[6]. La rivista aveva quindi un carattere scientifico ma anche divulgativo in senso moderno, cioè lontano dalle speculazioni erudite; si configurava inoltre come uno strumento per dar voce e propagandare gli interessi e le esigenze dei settori più avanzati della borghesia lombarda.

Sul Politecnico Bianchi pubblicò tre articoli scientifici: oltre a quello dedicato alle malattie dei lavoratori artigiani, videro la luce altri due contributi, rispettivamente sull’ubriachezza degli artigiani – un debito pagato ad una visione ancora spesso moralistica dei comportamenti popolari – e sugli effetti nocivi della lavorazione del piombo. Bianchi appare quindi perfettamente inserito nella corrente di pensiero rappresentata da Cattaneo e dalla sua rivista. Vari elementi ne danno conferma: l’attenzione all’introduzione delle macchine, alla divisione del lavoro, al lavoro infantile; l’interesse per gli agenti chimico-fisici utilizzati e la dimensione del rischio; il riferimento a informazioni e dati statistici provenienti da paesi più avanzati come Francia e Inghilterra; un metodo classificatorio del lavoro mentale, manuale e artigiano sistematico e lineare; il riconoscimento stesso della salute come «il più prezioso tesoro dell’uomo, e specialmente dell’uomo che vive del suo lavoro»[7].

Tutti questi aspetti evidenziavano la sua volontà di affrontare i problemi legati alle novità più importanti portati dal progresso dei suoi tempi: cioè la nascita e l’estendersi della moderna manifattura e dei nuovi regimi di produzione. Nel saggio Sulle malattie conseguenti all’esercizio delle varie professioni (1839) – che si presenta come un potenziale indice, una griglia classificatoria per un’opera ulteriore – Bianchi si proponeva in effetti di offrire un contributo capace di accompagnare il «progresso della civiltà» ai «progressi dell’industria», così da riparare ai crescenti mali fisici imposti dallo sviluppo della capacità produttiva[8]. Il saggio intendeva quindi offrire un aggiornamento degli studi di Bernardino Ramazzini (1633-1714), autore della celebre De morbis artificum diatriba (1700), promotore del neo-ippocratismo e capostipite europeo dell’indagine sulle malattie e l’igiene associate al lavoro[9]. L’attenzione per l’osservazione dell’ambiente, delle cause naturali fondamentali per la conoscenza dei fenomeni patologici, l’attaccamento a un metodo empirico che eviti l’astrazione speculativa dimostrano in quale misura il neo-ippocratismo e l’opera di Ramazzini abbiano lasciato il segno nel testo di Bianchi e nel contemporaneo dibattito medico su simili temi[10].

L’analisi di Bianchi

Il presupposto da cui muove l’analisi del medico milanese è che lo sviluppo delle forze produttive non possa né debba essere arrestato: «diminuire il numero delle arti e dei mestieri più insalubri, […] sin anco [sarebbe] inopportuno ed assurdo pensarlo; devonsi ricercare e mettere in opera tutti i mezzi possibili per rendere le professioni salubri o meno insalubri»[11]. Il punto non è quindi interdire alcune attività, poiché «l’occupazione […] procura un ben essere ch’è sconosciuto a coloro i quali, involti dal bisogno, non si applicano ad alcun lavoro»; al contrario lo Stato deve «stimolare l’industria con tutti i mezzi possibili […] per diminuire quella schifosa piaga degli Stati, la mendicità»[12]. Sempre allo Stato, però, spetta legiferare in materia di regolamentazione del lavoro, e ciò grazie ai numerosi dati e studi messi a disposizioni dalle scienze medico-statistiche in grado di fornire dei parametri valutativi adeguati[13].

L’intervento del legislatore, peraltro, non è sufficiente. Con una buona dose di scetticismo Bianchi segnala che gli operai «sono spesse volte i primi a respingere i miglioramenti salutari, e si ostinano con mal inteso coraggio a sdegnare pratiche, che loro sembrano puerili», sommando a tale atteggiamento anche altri comportamenti nocivi quali l’ubriachezza. Per Bianchi esiste dunque un generale problema culturale e di educazione a cui occorre porre rimedio; qui sono chiamate a intervenire le «classi agiate che godono in pace dei vantaggi dell’incivilimento [e] sono lontane dal conoscere a quanti mali e pericoli siano esposti gli uomini che loro procurano questi vantaggi»[14]. Borghesi e imprenditori devono in primis mettere in pratica i mezzi per mitigare la pericolosità insita in certe occupazioni e migliorare le condizioni del lavoro. Inoltre, appoggiando le ricerche e i propositi di uomini come l’autore, devono promuovere la stampa e la diffusione di manuali d’igiene, usando il loro ascendente sociale per correggere storture e ben dirigere gli animi, così da «allontanare dal teatro del lavoro le conseguenze perniciose alla salute degli artigiani medesimi»[15].

Pur con un tono pacato e talvolta moraleggiante nel testo di Bianchi erano insomma enunciate diverse affermazioni dal forte contenuto assertivo, capaci di interrogare su problemi che attraversarono il XIX secolo manifestandosi in particolare con l’affermazione dell’economia industriale anche nella penisola italiana. Nel suo piccolo, e fedele alla linea del Politecnico, Bianchi tentava fare della borghesia lombarda una più moderna classe dirigente, a cui offriva consigli, strumenti di comprensione della realtà e indicazioni circa le modalità con cui intervenire su di essa, sostenendo l’industrializzazione ma pure mettendone a nudo alcune conseguenze funeste a cui occorreva porre rimedio. Le riflessioni del medico milanese tornano quindi utili per chi volesse studiare la storia della sanità «modernamente e criticamente intesa» secondo le belle parole di Franco Della Peruta[16]: dallo scritto di Bianchi in effetti emergono i nessi fra la creazione di nuove strutture politico-amministrative (o di nuove responsabilità delle autorità municipali e/o statuali), l’evoluzione dei rapporti di produzione e delle forze produttive, il dialogo o l’incomprensione fra ceti dirigenti e classi popolari, nuove iniziative in campo sanitario-culturale all’insegna della popolarizzazione e promozione dell’igiene.

Certamente la trattazione di Bianchi non è esaustiva: si trattava di un breve articolo che anticipava la stesura di un’opera maggiore. È inoltre limitata: in essa non vengono citate le malattie epidemiche che colpivano la Lombardia ottocentesca, quali la malaria, la tubercolosi (di cui egli stesso sarà vittima) e soprattutto il colera, il cui contagio era agevolato dalle terribili condizioni igieniche delle classi popolari e dalla contaminazione batterica dell’acqua nelle aree urbane. Non presenta nemmeno tratti di assoluta novità. L’affermazione secondo cui l’industrializzazione allora nascente avrebbe implicato più vantaggi che danni non viene dettagliatamente articolata; ed anche sotto il profilo medico, la tendenza a denunciare come principale causa di malattia in ambito lavorativo l’eccesso di fatica o la ripetizione immoderata di certe mansioni[17] mostra i limiti di una medicina ancora incapace non solo di offrire una terapeutica efficace per far fronte a molte malattie, ma persino di individuare le modalità più adeguate per prevenirle. L’opera di Bianchi, tuttavia, è indicativa di come la dottrina medica cercasse di far propria la conoscenza scientifica e tecnica anche di altre discipline (si pensi all’utilizzo della statistica); e soprattutto, mostra come nel XIX secolo il dibattito medico-scientifico non rimanesse relegato fra specialisti ma assumesse fin dalla propria genesi un carattere anche civico, dalle forti venature socio-politiche, come traspare dalla volontà di Bianchi, e di molti altri suoi colleghi, di avere una chiara funzione sociale in un periodo di profonde trasformazioni e sfide.


[1] C. G. Lacaita, Il Politecnico di Carlo Cattaneo: la vicenda editoriale, i collaboratori, gli indici. Lugano Milano 2005, p. 199.

[2]   Il più importante è di certo quello intitolato Sulle malattie conseguenti all’esercizio delle varie professioni e sulla relativa igiene, in «Il Politecnico», vol. 2 (1839), fasc. 9, pp. 209-224.

[3] G. Belloni, Memorie di un chirurgo di campagna, in «Letture di famiglia. Giornale di educazione morale, civile e religiosa», anno 1 (16 luglio 1842), numero 28, pp. 223-224.

[4] In chiusura all’articolo dello stesso Bianchi, Sulle malattie degli artefici che maneggiano il piombo o i suoi preparati, e sul modo di prevenirle, in«Il Politecnico», vol. 4 (1840), fasc. 24, pp. 519-549 (p. 549).

[5] A. Verga, Appendice. Dizionario di sanità per il popolo. Opera postuma del dott. Andrea Bianchi in «Gazzetta medica di Milano», n. 2(15 giugno 1842), vol. 1, p. 13.

[6]   Lacaita, Il Politecnico di Carlo Cattaneo cit., p. 19.

[7]   Bianchi, Sulle malattie conseguenti cit., p. 219.

[8]   Ibidem.

[9] F. Carnevale, La manualistica italiana di medicina del lavoro di tre secoli: da Bernardino Ramazzini a Pier Alberto Bertazzi, in «Epidemiologia & Prevenzione», n. 2 (marzo-aprile 2014), pp. 1-50; S. Marinozzi, M. Conforti, V. Gazzaniga, L’ippocratismo di Bernardino Ramazzini. Per la costruzione di una medicina sociale, in «Medicina nei secoli. Arte e e scienza. Giornale di storia della medicina», 23 (2011), n. 2, pp. 465-493.

[10] Cfr. per esempio S. De Renzi, Topografia e statistica medica della città di Napoli, 1838. Da uno sguardo alla classificazione che De Renzi propone delle arti e delle malattie correlate emerge come Bianchi, seppur in modo sintetico, segua una maggiore sistematicità.

[11] Bianchi, Sulle malattie conseguenti cit., p. 219.

[12] Ivi, p. 212.

[13] Ivi,p. 217.

[14] Ivi,p. 218.

[15] Ivi, pp. 218-219.

[16] F. della Peruta, Per uno studio della malattia come ricerca di storia della società (1815-1914), in Storia della sanità in Italia. Metodo e indicazioni di ricerca, Centro italiano di storia ospitaliera, Roma 1978, pp. 25-41.

[17] In questo senso, pur non essendo immediatamente riconducibile alla dottrina rasoriana dell’eccesso di stimolo quale causa prima dello stato di infermità, tale principio sembra rivelare che Bianchi risentisse di una tendenza tipica della medicina della prima metà dell’Ottocento, rafforzata proprio dal successo di Rasori: quella consistente nel tentare di «conseguire la semplicità-generalità, mirante a risolvere la complessità e particolarità dei casi clinici in uno schema patologico onnivalente», secondo le parole di G. Cosmacini, Teorie e prassi mediche fra Rivoluzione e Restaurazione: dall’ideologia giacobina all’ideologia del primato, in «Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina», a cura di F. della Peruta, Torino 1984, pp. 151-295 (pp. 156-160).

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